La Vienna a cavallo tra Ottocento e Novecento, epicentro di una vasta disgregazione politica e sociale, diventò “laboratorio della fine del mondo” secondo Karl Kraus, luogo deputato alla “gaia apocalisse”, grandioso esperimento culturale, i cui protagonisti, le figure più eminenti della scienza e dell’arte, proposero itinerari artistici e intellettuali per affrontare la crisi dell’uomo contemporaneo. E tutto ciò avveniva nei salotti dell’epoca, in eleganti caffè, in templi dell’arte e nei teatri prestigiosi. Sigmund Freud, Arthur Schnitzler, Hugo von Hofmannsthal, Egon Schiele, Gustav Mahler, Gustav Klimt – solo per citarne alcuni – diedero vita a opere di grande evocatività che esprimevano il piacere, il desiderio, l’angoscia e la paura, in un brillante intreccio tra Sogno e Realtà, Eros e Morte.
Nel segno di Klimt nasce un’arte nuova, la Secessione viennese, che, nonostante il nome, non voleva rompere con il passato, ma diventare un punto di riferimento tra tradizione e futuro e di apertura all’internazionalità. Gli artisti dell’“Associazione degli artisti figurativi dell’Austria, Secessione” non intendevano assumere una fisionomia locale provocatoria, ma essere europei. Dunque, più “tradizione” che “rivoluzione”; la lingua latina usata per intitolare la mirabile rivista della Secessione, «Ver Sacrum», Sacra primavera, ne è la prova, pubblicata dal 1898 al 1903. Accomunati dall’intento di creare con ogni numero un’opera totale completa – un “Gesamtkunstwerk”, in cui il testo e l’immagine si compenetravano, artisti, letterati e musicisti lavorarono insieme, editando una rivista che per la sua apertura internazionale, la cura e la raffinatezza della sua elaborazione ottenne un notevole successo in tutta Europa e anche Oltreoceano. E che affascina ancora oggi.
Marina Bressan