La fine dell’età della tecnica

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Anna Limpido

6 Dicembre 2021
Reading Time: 4 minutes

Rapporto sull’occupazione in FVG

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Dopo anni di estenuanti campagne volte a sensibilizzare l’importanza della partecipazione femminile nel mondo del lavoro, finalmente sembrano cogliersi i primi frutti di una nuova consapevolezza etica e sociale la cui attuazione pare adesso urgente e improcrastinabile.

Che un’inversione di tendenza sia in atto, lo si coglie osservando alcuni dati provenienti dalla Regione Friuli Venezia Giulia (dove è in vigore, su tutte, la L.R. 18/05 che prevede interventi a favore della parità di genere e di soluzioni welfare per favorire la conciliazione tra lavoro e famiglia)  a proposito della condivisione dei ruoli genitoriali tra lavoratori e lavoratrici (che segnano per la prima volta la crescita, seppur minima, della presenza dei padri rispetto agli anni precedenti), ma soprattutto dall’inedita attenzione del Legislatore Nazionale con il G20 del 26 agosto scorso incentrato sulla parità, l’approvazione della “Strategia Nazionale per la Parità di Genere”, il “Piano Nazionale di Resistenza e Resilienza” e ancora l’impegno dell’ONU con gli obiettivi dell’ “Agenda 2030”.

Una consapevolezza istituzionale nuova adesso possibile grazie ad una maturità sociale che inizia a pervadere ogni ambito umano: dall’ambiente ai diritti va consolidandosi un’attenzione diffusa volta alla qualità delle azioni e non solo alla quantità, all’umanesimo e non più alla tecnica, al benessere della vita e non solo alla frenesia del vivere.

Dal boom economico industriale a oggi ha imperato quella che i più definiscono “l’età della tecnica” ben descritta e anticipata dal filosofo, accademico e poeta tedesco Hegel (“l’aumento quantitativo di un fenomeno corrisponde ad un mutamento qualitativo dello stesso con un capovolgimento tra mezzo e fine, tra soggetto ed oggetto: se la tecnica diventa la condizione universale per realizzare qualsiasi scopo, allora la tecnica smette di essere mezzo e diventa fine”).

In tale enorme lasso di tempo i lavoratori sono andati via via assomigliando sempre di più a macchine: non assentarsi, non ammalarsi, non distrarsi, una graduale eclissi delle ragioni umane in favore di altre priorità. Progresso e consumismo.

Con la tecnica il pensiero si fa aggressivo perché rende ogni presenza, incluso l’uomo, un oggetto da manipolare. Ogni cosa è così immediatamente pronta all’uso e ha valore fintantochè è utilizzabile, la cosa in quanto cosa (o l’uomo in quanto uomo) è completamente ignorata e nascosta” (Heidegger, 1953).

Con tale visione, nel tempo sempre più esasperata, chi non è riuscito a stare al passo ne è stato penalizzato “perché ciò che fuoriesce dalla logica della tecnica diventa elemento di disturbo seppur l’uomo non sia solo razionalità, è anche irrazionalità, fantasia, immaginazione, desiderio, sentimento, sogno” (Galimberti “L’uomo nell’età della tecnica”, 2011): chi è rimasto portatore di altre ragioni o di altri bisogni è stato considerato sacrificabile dal sistema che correva verso la produttività.

In questo contesto a pagare il prezzo più caro sono state le donne e i giovani, coloro cioè che, rispettivamente, ancora portano avanti le conseguenze culturali dei carichi familiari (in primis l’insostituibile assenza per maternità), di una certa diffidenza pregiudizievole dalle “stanze dei bottoni”, o che pagano il pegno della continua mancata emancipazione della loro esperienza: in entrambi i casi ragioni extra lavorative a cui il sistema, fin’ora, non ha avuto tempo di occuparsene.

Quanto alle donne, questi i dati preoccupanti delle loro assenze (di ruolo, di fatto, di salario) degli anni 2019/2020 in regione: segregazione verticale (l’incidenza femminile nella classe dirigente privata risulta pari solo all’11,4%), uso del part time (lavoratrici a tempo ridotto pari al 50,9% rispetto al 9,5% degli uomini), differenza salariale (il divario si attesta al 26,5% in meno per le donne), dati su cui successivamente si è innestata anche la crisi pandemica del biennio 2020/2021.

In un contesto così gravemente oggettivizzato, è ora diventato urgente riscoprire il valore umano (così come già nel 1970 sosteneva Sartre “il soggetto come categoria etica irrinunciabile”), di rielaborare un pensiero alternativo che costruisca nuovi spazi e nuovi valori per il futuro che veda anche le donne lavoratrici coprotagoniste e beneficiarie di questo processo in attuazione anche dei principi della nostra Carta Costituente (“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” art. 3).

Un’inversione di tendenza, ora concretamente auspicata, che, riponendo l’uomo e le sue necessità al centro, riscopre la correlazione e compartecipazione delle responsabilità a tale costruzione perché ormai è chiaro che la sola tecnica non ha fini, non libera e non salva: la tecnica funziona e basta e cinicamente ha lasciato indietro tutte le sfumature umane di cui gli uomini sono composti e di cui, in particolare, le donne sono portatrici attive.

 

Anna Limpido è Consigliera di Parità della Regione Friuli Venezia Giulia

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