La signora Débegnac

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Margherita Reguitti

23 Giugno 2022
Reading Time: 7 minutes

Ariella Reggio

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Eclettica, dotata di diversi registri interpretativi, dal comico al drammatico, capace di una raffinatezza popolare, sempre in attesa di nuovi stupori, sbarazzina oltre il dato anagrafico dei natali triestini nel 1936, instancabile lavoratrice da quando, dopo la maturità classica, entra nella compagnia di prosa della Rai di Trieste.

Ariella Reggio è attrice di teatro che lavora al cinema, in televisione, con tanta esperienza radiofonica in Italia e in Gran Bretagna, fondatrice con Orazio Bobbio nel 1976 della compagnia La Contrada di Trieste. Curiosa e disposta a imparare dai giovani che ama e stima, durante il lockdown si è “buttata” nel mare magnum della rete con la sua signora Débegnac, personaggio di triestinità popolare, ficcanaso saccente. Assieme hanno girato il mondo, fino alla Cina. Poi, appena la pandemia lo ha reso possibile, ha ripreso a viaggiare su è giù per il Paese, sui set cinematografici e nei teatri.

Partiamo dalla sua ultima interpretazione: “Harold & Maude” di Colin Higgins, adattamento e regia di Diana Höbel, prodotto dalla Contrada, è un dialogo fra generazioni in un’opera degli anni ’70.  Quali sono gli elementi che avete scelto di valorizzare del testo?

«Direi la magia che solo il teatro rende possibile e la poesia del testo, ieri come oggi fortemente trasgressivo, nel rapporto fra i personaggi: l’ottantenne Maude e il giovane Harold. L’idea del progetto è nata alcuni anni fa e finalmente è stato possibile andare in scena nel cartellone dell’ERT. Maude mi assomiglia. Mi sono identificata non nelle sue trasgressioni superficiali da figlia dei fiori, bensì nelle sue aspirazioni più profonde, interiori e universali. Avendo abitato e lavorato a Londra negli anni ’70 ho rivissuto le atmosfere e le spinte al cambiamento di allora».

Come è stato tornare in teatro dopo i mesi di lockdown?

«È stato riscoprire la mutua necessità che dà vita al teatro. Attori, tecnici e pubblico hanno reciprocamente bisogno gli uni degli altri, dal loro incontro nasce la magia dello spettacolo. Senza le persone in sala gli attori parlano a se stessi e i teatri sono una scatola vuota. Certo lo streaming ha aiutato, ma non è la stessa cosa».

Lei ha fondato “La Contrada” di Trieste; oggi come allora qual è la motivazione?

«La passione: semplice ma vero. È la spinta che rende incosciente nel sognare ambiziosi progetti, dà coraggio e forza nella perseveranza nei momenti più duri quando non è facile andare avanti. Sento “La Contrada”, nata grazie alla passione di Orazio Bobbio, Lidia Braico e Francesco Macedonio, come una parte di me. Orazio soprattutto si è dedicato completamente, rinunciando anche alla soddisfazione di essere attore, per concentrarsi su un progetto che è anche azienda. Perché la vita di una compagnia teatrale è anche gestione finanziaria e capacità manageriale. Dopo la scomparsa di Orazio e di Francesco non è stato facile andare avanti ma con caparbietà siamo ancora qui».

Come si sente oggi nella sua creatura?

«Mi sento nell’anima e non nella burocrazia, il mio contributo è più creativo che manageriale e stimo i giovani entrati dopo di noi che considero bravi».

Cosa intende per bravi?

«Noi ci buttavamo a capofitto mentre oggi hanno professionalità diverse. Sanno gestire, fare promozione e organizzare anche l’aspetto aziendale della compagnia. Noi nei nostri camerini avevamo sogni e forse più occasioni di lavoro e dunque di fare gavetta, una possibilità oggi carente. Loro però si buttano nella “rete” e arrivano lontano. Stimo molto i giovani con cui lavoro, sono professionali e corretti, gente che sa dove vive, mi piace stare con loro».

Fra i giovani ricordiamo la sua lunga collaborazione, in teatro e al cinema, con il goriziano Matteo Oleotto, affermato regista della fortunata serie televisiva Rai “Volevo fare la rockstar”.

«Con Matteo ho avuto modo di recitare il registro sia drammatico sia comico. Ho avuto l’onore di partecipare a uno dei suo primi cortometraggi dal titolo “Passeranno anche stanotte”. Quando lo abbiamo girato era un progetto d’avanguardia, metteva in scena la paura poetica e il desiderio carico di incognite di incontro dell’altro, del diverso. Con lui ho successivamente recitato anche in “Zoran, il mio nipote scemo”. È sempre un piacere lavorare con lui, bravo e gentile».

Ci parla del suo rapporto con il cinema?

«Maddalena Mayneri di Maremetraggio mi chiamò, fra le prime, per partecipare a “Per Agnese” con Ricky Tognazzi, testo di Stefano Savio e regia di Massimo Cappelli. Ero molto emozionata. Mi piace il cinema ma mi fa paura, non lo conosco abbastanza per essere a mio agio. In teatro mi confronto direttamente con il pubblico, al cinema ci sono molte figure professionali prima di arrivare alle persone. Ci torno con piacere ogni volta che mi chiamano, alla mia tarda età sono sempre in attesa di nuove esperienze».

È stata avvistata anche sul set di “Diabolik” girato a Trieste…

«Ma chi glielo ha detto? (ride). Sono andata per salutare la protagonista Miriam Leone con la quale ho lavorato in una particina in “Marilyn ha gli occhi neri” e siamo rimaste legate. È una persona meravigliosa, oltre che brava, semplice e profonda allo stesso tempo».

Accanto al teatro e al cinema anche la televisione.

«Sì, qualcosina ho fatto, citando ad esempio la popolare fiction Rai “Tutti pazzi per amore”. Forse non piacciono le mie troppe rughe? Ma la prego non entriamo nell’argomento che si presta a prediche che non voglio fare. Solo aggiungo che io amo le pieghe del mio viso, sono parte dell’accettazione di me».

Torniamo al teatro: memorabile il suo nudo in “Calendar girls” con Angela Finocchiaro per la regia di Cristina Pezzoli…

«Un’esperienza unica con una grande regista scomparsa troppo presto. Cristina seppe creare la magia del vedo e non vedo per un approccio ironico al testo. Con delicatezza ci ha guidate rendendoci autentiche anche nelle scene di nudo, togliendoci i metri di tulle attorno ai corpi, modello insaccati. Ci siamo tanto divertite anche con i tecnici e i vigili del fuoco che abbiamo fatto spostare da dietro le quinte al fondo della sala. Ho incontrato colleghe meravigliose e ci vogliamo davvero bene, altro che litigare come alcuni avevano vaticinato. Una dimostrazione di come l’ironia e la professionalità possono tutto, anche se viviamo in un paese abbastanza maschilista. In teatro, come nella società, accade infatti che le critiche verso le donne siano spesso più feroci di quelle verso gli uomini. Certo io non vado d’accordo con tutte ma mi piace lavorare con le brave, come ad esempio Serena Sinigaglia, originale nella sua direzione artistica, senza imitare i maschi, soprattutto nei difetti».

Parliamo della sua signora Débegnac, prototipo di ironia anche demenziale unita a una certa ignoranza saccente che ritroviamo anche nelle donne di Franca Valeri.

«Grazie per il paragone. Certo Franca è stata una grande e ha dimostrato coraggio nel recitare anche da malata. Io stessa sono piena di acciacchi ma in scena tutto passa. Una magia ancora! Per questo in teatro ci sono molte persone della mia età e oltre come Annamaria Guarnieri e Umberto Orsini entrambi classe 1934. Il teatro è vita. Ecco perché dopo il Covid ci sono molti più giovani nei teatri; cercano la vita e la relazione che la pandemia ci ha tolto, insegnandocene il valore. Tornando alla Débegnac non mi aspettavo il suo successo, grazie ai video fatti da casa con il telefonino e messi in rete quasi per gioco durante la pandemia. Questo carattere di donna saccente triestina, anche se il cognome è goriziano, era solo citato nei testi degli anni ’70 degli autori Carpinteri e Faraguna. La Iole si era materializzata per la prima volta nel 2019 in Nuovo Cine Swarovsky, “musical vaudeville” andato in scena al Teatro Bobbio per il testo e regia di Davide Calabrese. Adesso ha la mia voce e il mio viso. E mi sta dando tante soddisfazioni. Devo solo stare attenta che Maude non si ingelosisca…»

Qual è il segreto della sua lunga e importante carriera?

«Difficile dire, io sono stata fortunata perché ho capito subito quale era la mia strada, ho fatto la gavetta e non mi sono più fermata. Qualsiasi sacrificio è stato affrontato e mio padre, assai critico verso me come figlia, mi riconosceva rigore e impegno in teatro. Sono grata ai miei genitori, negli anni ’60 mi incoraggiarono ad andare a Londra dove lavorai per diverso tempo alla BBC. Una formazione che mi ha aperto la mente. Certo la salute e la fortuna contano».

Quali sono stati gli incontri fondamentali della sua carriera?

«Tanti, ma fra questi i grandi registi come Ugo Amodeo, con il quale ho iniziato alla radio Rai di Trieste, poi Francesco Macedonio, persona schiva ma regista che lavorava con l’attore per trovare nell’interprete l’anima dei personaggi, e Giorgio Streheler con il quale ho lavorato al Piccolo di Milano. Loro e altri mi hanno accompagnato fin qui».

Nella sua Trieste si sente amata?

«Tanto, soprattutto dalle donne. Vengono in camerino o mi fermano per la strada per farmi i complimenti ma anche per manifestarmi il loro affetto. Molte si riconoscono nei miei personaggi di donna matura, io rappresento la voglia delle persone di una certa età di andare avanti, di non restare in un cantuccio ad aspettare».

Un suo sogno?

«Tornare alla radio. Ha il potere di scatenare la fantasia. Lì ho iniziato e lì vorrei ritornare dopo aver assaggiato un poco di tutto».

 

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