Le porte del cielo

imagazine vanni veronesi

Vanni Veronesi

11 Novembre 2014
Reading Time: 10 minutes

L’Oriente di Odorico da Pordenone

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Cosa sa, l’europeo del XIII secolo, del pianeta su cui vive? Sa che è sferico, ma lo immagina al centro dell’universo, con i pianeti, il sole e le stelle fisse che gli ruotano intorno. È convinto che il centro del mondo sia Gerusalemme, perché quella è la città della morte e resurrezione di Cristo; superata la Mesopotamia, si estende un continente enorme e misterioso.

Pioniere dei viaggi in terre sconosciute fu l’umbro Giovanni da Pian del Carpine, che nel 1245 partì come legato su incarico di papa Innocenzo IV: l’obiettivo era instaurare rapporti diplomatici con il Gran Khan dei Mongoli, che all’epoca era Güyük, nipote del famigerato Genghis Khan, arrivato con le sue conquiste fino in Europa orientale. Giovanni, con la sua Historia Mongalorum, fu il primo a svelare i segreti dell’Estremo Oriente; poco tempo dopo, nel 1253, il re di Francia Luigi IX seguì l’esempio papale e inviò dal condottiero mongolo Sartaq il francescano Guglielmo di Rubruck, che raggiunse il Kharakorum passando per Russia e Kazakhistan, compilando al ritorno un Itinerarium fra i più suggestivi del Medioevo. Nel 1271, a partire per la Mongolia è il più famoso di tutti: Marco Polo, il cui Milione diventerà uno dei più famosi best-seller di tutti i tempi. Nel 1289 è poi la volta di Giovanni da Montecorvino, che morirà a Pechino dopo avervi fondato la prima chiesa cristiana ed essere diventato il primo vescovo in terra cinese. Ma nel 1308, quando a muoversi verso l’Asia è il frate domenicano Odorico da Pordenone, egli sa bene di andare comunque incontro all’ignoto: le fresche notizie dei quattro predecessori non sono ancora patrimonio culturale sedimentato. A guidarlo è solamente la fede in Dio, che Odorico desidera divulgare, ma con spirito apertissimo e curiosità da esploratore: due elementi che decretano il successo immediato della sua Relatio. Un libro che diventa subito ‘di culto’, copiato, tradotto e manipolato così tanto che è impossibile stabilire una versione ‘originale’.

Da Venezia all’Iran

Nel 1308 Odorico da Pordenone inizia il suo viaggio da Venezia, dove s’imbarca alla volta di Bisanzio. Da lì risale in barca e, solcando il Mar Nero, giunge a Trebisonda, dove annota il primo dei suoi bozzetti curiosi: la vista di un uomo circondato da quattromila pernici addomesticate.

Imboccando quindi la strada carovaniera che scende a sud-est, tocca Erzurum e le pendici del monte «Sobissacallo», che solo la nota «dove è l’arca di Noè» lo rende identificabile con l’Ararat: in una delle versioni della Relatio vediamo Odorico rapito dal fascino di «quello monte altissimo e bellissimo e sempre ne la neve, quasi insino all’altra parte del mondo», sul quale sarebbe salito volentieri se non avesse dovuto «aspettare la charovana». La tappa successiva è Tabriz, la porta della Persia sulla via della Seta. A poca distanza, il frate riporta la sua visita a un monte di sale, dal quale «può prendere chiunque vuole», particolare formidabile in un’epoca in cui la paga di molti mestieri era letteralmente salario, ossia un sacchetto di preziosissimo sale, unico conservante prima del frigorifero. Poi, rotta verso Soltaniyeh, Saba – la città da cui partirono i Re Magi -, la coloratissima Kashan e il «mare sabuloso»: è la prima volta che Odorico vede il deserto, che «si muove a mo’ del mare nella tempesta del vento, che se alcuno v’entrasse […] sarebbe affoghato e richoperto, ove io vidi monti altissimi di rena i quali in pochissimo tempo si disfanno e altri di nuovo si fanno». Percorrendo l’altopiano iranico lungo il Kurdistan, approda infine nella splendida Yazd: è l’ultima tappa iraniana di Odorico, che con un bizzarro cambio di rotta decide di deviare verso ovest, per andare in Mesopotamia, perché il richiamo della «torre di Babello» è irresistibile. Sono le ultime terre comprese nell’orizzonte geografi co dell’occidentale dell’epoca: lasciatosi alle spalle il Golfo Persico, Odorico sa di navigare verso luoghi che l’Europa conosce solo grazie alla tradizione orale o letteraria. Sono le terre bibliche di Gog e Magog, le tribù sataniche che dilagheranno alla fi ne dei tempi. E, ancora più in là, solo misteri.

La terra degli uomini «ignudi»

Salpato probabilmente da Bassora, il frate pordenonese sbarca ad Hormuz e quindi, solcando il «mare Occeano», in India. Per ogni città di questa terra leggendaria la prima annotazione è dedicata alle donne e agli uomini che girano «ignudi»: qualcosa di inconcepibile per un europeo del Medioevo, ma Odorico appare più divertito che scandalizzato.

La seconda indicazione riguarda puntualmente i prodotti agricoli: è dai tempi dei Romani, infatti, che datteri e spezie arrivano da qui. La prima tappa è Thana, con la sua fauna esotica e il lungo racconto del martirio di quattro frati cristiani avvenuto in passato. È quindi la volta del Malabar, che colpisce Odorico per le vaste coltivazioni di pepe, da cui i locali ricavano salse deliziose («ed io ne mangiai ed ebbine assai!»); dello Sri Lanka, terra di «infiniti serpenti, […] pietre preziose», dello zenzero migliore al mondo e di fedeli che adorano un idolo metà bue e metà uomo; di Milapore, dove morì S. Tommaso Apostolo; e del Coromandel, dalla cui costa salpa alla volta delle isole Andamane e Nicobare. Il viaggio continua a Giava, su cui «naschono le noci moscate», a Sumatra, con gli immancabili cannibali e le sue grandi tartarughe variopinte, e nel Borneo, in cui scorre un fiume pericolosissimo: «Se i marinai si partono punto dalla riva, vanno discendendo e non tornano mai. […] E la nave nostra fue in grande pericolo, andando quindi, se non che Idio ci aiutò miracholosamente».

Le magie dell’Indonesia aprono le porte ad altre scoperte; ripresa di nuovo la nave, Odorico approda in Vietnam, sul quale chiosa con molta fantasia: «Quando in questa contrada alcuno muore ch’abbia moglie, egli l’ardono, et ardono la moglie essendo viva; et si dice che ella vada a stare col suo marito all’altro mondo». E dopo il Vietnam, il passo successivo è la Cina, lo sterminato Celeste Impero, campionario di tutte le meraviglie possibili.

Da Canton al Catai

L’incontro con la Cina, per Odorico, inizia a Canton (in cinese Guǎngzhōu), bagnata «da sì grande naviglio, che quasi noi no lo potremo credere. Onde tutta Italia non ha cotanto naviglio, né si grande come questa sola città»: è lo Zhū Jiāng, l’enorme “Fiume delle Perle”. Nonostante l’usanza di mangiare serpenti, «in questa città ae grandissima abundancia di tutte vettuarie che siano nel mondo»: quella di Canton è infatti la più rinomata fra le otto cucine regionali cinesi e nel suo porto, da sempre, si scambiano i prodotti alimentari più disparati. La seconda tappa è Zaiton, forse identificabile con Cháozhōu – la capacità di storpiare i nomi cinesi è potenzialmente infinita -, mentre la terza è senz’altro Fúzhōu, dove si trovano «e maggior galli che siano nel mondo; et le galline sono tutte bianche come neve, et non hanno penne, anzi lana come pecore».

Quindi Chinsai, «città del cielo», oggi Hángzhōu; qui, nella «maggiore città che sia nel mondo», con i suoi 1.200 ponti sulla laguna che ne fanno una Venezia all’ennesima potenza, «onde molto mi maravigliai come tanti corpi humani poteano abitare insieme», l’operato di Giovanni da Montecorvino ha già dato i suoi frutti: Odorico, infatti, racconta di essere stato ospitato da un uomo convertito «a la fe’ nostra». Stranamente poche parole vengono dedicate a Nanchino, l’antica capitale, ma ormai la Relatio ha assunto la forma di un diario sentimentale, nel quale il frate friulano annota ciò che lo tocca più da vicino: così, a Yángzhōu, non manca di riportare la presenza di tre chiese e di una comunità cristiana dedita al commercio della seta. Di essa faceva parte una certa Caterina Vilioni, forse genovese, la cui lapide tombale verrà scoperta in città nel 1957: l’anno di morte, il 1342, ci autorizza a immaginare un incontro fra lei e Odorico.

Il viaggio è ancora lungo: dopo il porto fluviale di Xúzhōu, pittoresco per le sue navi «tutte bianche come neve, dipinte di gesso», il domenicano si trova a navigare sull’impetuoso Fiume Giallo, che «passa per mezzo el Catayo, et fagli molto grande danno quando egli rompesse, come fa il Po a Ferrara». Fino ad arrivare alla meta finale, agognata sin dalla remotissima Pordenone: Khambaliq, la «sede del Khan», la Pechino di oggi. Il sovrano, nipote di quel Kublai che aveva ospitato Marco Polo, è Yesün Temür, della dinastia mongola degli Yuan. La descrizione della sua corte e della vita che vi si svolge è già pronta per il cinema: colonne d’oro, muri ricoperti di pellame rosso, pietre preziose gigantesche modellate come brocche per servire il Khan, tutto sotto la sguardo della ieratica famiglia imperiale, per la quale lavorano quattrocento medici e diecimila giullari, più «quattro scrittori che scrivono tutte le parole che dice lo Re. Inanzi el cospetto di quello stanno i suoi baroni et molti altri infiniti huomini. Neuno di loro s’ardirebbe di favellare per neuno modo, se dal Signor grande no lo domandasse».

Memorabile la scena del banchetto, con i baroni a servire direttamente il sovrano, «et ciascheduno ae cotale vestimenta indosso, che solamente le perle che sono in ciascuna vestimenta vagliono più di quindici mila fiorini»; non meno suggestiva la visione del Khan a caccia o a spasso per l’Impero, su una portantina in legno d’aloe, placcata oro e tempestata di perle e pietre preziose, sollevata da quattro elefanti. La vera rivelazione, però, è il sistema postale dell’Impero, organizzato con una serie di stazioni di cambio poste a distanze regolari, «et cosi per questo modo, in uno naturale die, una novella di dieci giornate lungi riceveva lo imperadore!»; in caso di emergenza, invece, basta che una sentinella su una torre suoni il corno per far sì che, nella torre successiva, un’altra sentinella propaghi il suono, e giù a effetto domino fi no alla capitale.

Il viaggio di ritorno

Rimasto alla corte del Khan per tre anni, Odorico riceve un messaggio: dopo aver battezzato 20.000 persone e dato nuovo slancio alle comunità cristiane nelle terre mongole, la sua missione pastorale è finita. La via del ritorno, però, non sarà la stessa dell’andata; c’è ancora moltissimo da scoprire e da Pechino le terre del leggendario Prete Gianni, su cui l’intera Europa ha ricamato miti d’ogni sorta legati al Sacro Graal, distano ‘solo’ cinquanta giornate di marcia nella Mongolia interna. Impossibile resistere, ma l’impatto all’arrivo è deludente: «La sua cittade principale se chiama Ghosan; et è bene Vicenza migliore di quella». Ben altra meraviglia, invece, desta la provincia di Shǎnxī, famosa per il rabarbaro, «sì bene abitata che quando si vae fuori delle porte d’una città, si vede le porte de l’altra cittade». Ma il quadro più bello di tutta la Relatio è dedicato al Tibet. Marco Polo, nel Milione, l’aveva solo citato: Odorico, invece, lo percorre a fondo – primo occidentale in assoluto – penetrando addirittura nella capitale, Lhasa, la bianca città del Dhalai Lama:

Partendomi di questa provincia, venni a uno grande regno che si chiama Tibot, che l’è confine de l’India; et questo regno si è sottoposto tutto al Gran Cane. In questo si è maggior copia di pane et di vino che sia in lo mondo. La giente di questa contrada stanno nelle tende, che sono di feltro nero. La sua principale et regale cittade è tutta fatta di muri bianchi et neri, et tutte le vie di quella sono tutte perfettamente mattonate; et in questa cittade no è ardito di spargere sangue umano, ne di bestie, a riverentia d’una sua idola, la quale egli adorano. In questa città dimora lo Gran Lama, cioè lo Papa in sua lingua; et questo si è el capo di tutte quelle idole, a’ quali secondo la loro usanza dà et distribuisce tutti gli lor benefi ci, e quali egli hanno.

Da qui in avanti, la Relatio assume i toni di un romanzo gotico, popolato da personaggi inquietanti, dal principe di qualche terra oltre il Pamir, che pasteggia imboccato «como fosse un passerino» da cinquanta vergini, agli indemoniati della Persia curati dai Francescani, fino al Vecchio della Montagna, che nell’Iran orientale avrebbe fondato un regno ricolmo delle delizie descritte da Maometto nel Paradiso del Corano: una cittadella imprendibile dalla quale uscire solo addormentati con l&rsqu
;hashish, e nella quale rientrare solo dopo esser diventati al-Hashīshiyyūn, per l’appunto assassini al soldo del Vecchio.

Il vero capolavoro, però, è l’ultimo episodio prima del commiato, ossia la descrizione della Valle Infernale, nel micidiale deserto del Taklimakan:

Io volli entrare in quella a vedere che fosse là entro: et quando io fui entrato dentro, vidi molti corpi morti, che s’alcuno no gli vedesse, parrebigli cosa incredibile. In questa valle etiandio da uno de tanti nel sasso viddi una faccia d’huomo molto terribile. Per la quale, per la gran paura che n’ebbi, credetti perdere lo spirito. […]. Et perch’io non ardiva d’andare lae, andai da l’altro capo la valle, et si montai in uno monte renoso […]. Et quando io fui in capo del monte, trovai una gran quantitade d’argiento ivi raccolto a modo di scaglie di pesce. Del quale argiento io mi misi in grembo et perch’io non ne curava, sì lo gittai in terra: et così con la gratia di Dio uscii sano et salvo. Et poscia che tutti quegli Saracini seppono quello, molto m’aveano in reverentia, et diceano ch’io era batezato et santo. Et quegli ch’erano morti in quella valle, diceano ch’erano huomini del demonio d’inferno.

Una visione infernale a chiudere l’opera, come il Giudizio Universale affrescato sulle porte d’uscita delle chiese medievali: un monito per rammentare l’importanza della fede in ogni momento della vita, soprattutto in quelli più duri. Quella fede che non abbandonerà mai Odorico, tornato in Italia nel 1330 dopo oltre vent’anni di viaggio.

A Padova, ospite del monastero presso la Basilica di Sant’Antonio, detta il resoconto del suo viaggio al frate Guglielmo di Solagna, ma è arrivato il momento di riferire tutto anche al Papa. Si mette quindi in viaggio per Avignone, ma il tempo delle peregrinazioni è ormai finito: lungo la strada si ammala e a fatica riesce a tornare indietro, nel suo Friuli. A Udine viene accolto nell’ospedale di San Francesco, dove muore il 14 gennaio 1331. La sua causa di canonizzazione, iniziata nel 1775 da Benedetto XIV, è ancora aperta.

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