L’ultimo hippie

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Michele Tomaselli

8 Marzo 2016
Reading Time: 6 minutes

Luciano Lunazzi

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Magic bus non è solo il brano cantato da Pete Townshend, del gruppo rock britannico The Who. E neppure il Magic Bus del romanzo “Nelle terre estreme” di Jon Krakauer, poi riversato sul g rande schermo nel film “Into the Wild” di Sean Penn; ma piuttosto il simbolo di un’epoca, lo stereotipo degli anni Sessanta che accompagnava migliaia di nuove generazioni verso l’India, alla ricerca di emozioni forti, spesso psichedeliche.

Un bus tutto colorato e dipinto con i fiori più strani, che arrancava da Istanbul a Katmandu, attraverso una strada lunga 6.000 km. Si poteva viaggiare senza grossi problemi sull’itinerario che ripercorreva la Via della Seta. Si partiva da Londra e Amsterdam (ma qualsiasi luogo andava bene), si oltrepassava la Jugoslavia, la Bulgaria (o la Grecia) fino ad arrivare a Istanbul, in Turchia. L’Hippie Trail, la rotta della beat generation, così com’era chiamata, partiva dalla metropoli turca e attraversava la Turchia, l’Iran, l’Afghanistan, il Pakistan e l’India fino di arrivare in Nepal. Era necessario inerpicarsi sul leggendario Khyber Pass, un valico di confine tra il Pakistan e l’Afghanistan, attraverso una stradicciola da brivido, stretta e impervia, con precipizi dappertutto. Peraltro, il luogo è leggendario, si sono combattute battaglie risalenti all’impero persiano e mongolo ed è scenario dei racconti di Rudyard Kipling; tuttavia l’accesso fu consentito fino al 1979, quando presero inizio la rivoluzione islamica e la guerra afghana.

A detta di molti viaggiatori, l’Hippie Trail è stata l’ultima occasione per rivivere le atmosfere delle Mille e una notte in una scoperta di culture e civiltà. È curioso sapere che la nota casa editrice australiana Lonely Planet, è figlia di un Hippie Trail: i suoi fondatori Tony e Maureen Wheeler, dopo averlo percorso scrissero “Across Asia on the Cheap” (“Attraversare l’Asia con quattro soldi”), un diario di successo che avviò l’editoria da viaggio.

Dopo questo lungo itinerario la cultura hippie è riuscita a espandersi in tutto il mondo, in particolare grazie all’accostamento della musica rock, folk e blues, alle sceneggiature a tema, ai manifesti pubblicitari, alle copertine dei vinili e ai concerti rock. La sua arte ha avuto principalmente lo scopo di descrivere una meravigliosa esperienza estatica e spirituale, fra cui spiccava la vitalità e la ricchezza di energia.

Ne parliamo con Luciano Lunazzi il re di “Tacons” e delle pillole sull’homo furlanus, ultimo dei figli dei fiori della Carnia (di Cjalina di Davâr – Chialina di Ovaro) che, dopo 25 anni in giro per il mondo, ha deciso di percorrere una nuova vita, quella dell’artista, sentendo il bisogno di trasmettere i colori hippie. Le sue opere indicano chiaramente l’intenzione di raccontare le esperienze vissute in viaggio. Il suo è un linguaggio particolarmente originale che ricorre a una tecnica mista con l’uso di pittura acrilica, del pennarello, di graffitismo e al collage di materiali di riciclo come pagine di riviste, dischi di vinile. Le sue principali opere sono: il Magic Bus, gli Strange Cats, i Gelsi e i Flux kids.

Luciano Lunazzi, i suoi Magic Bus sono la metafora del senso di viaggiare. Una metafora strettamente legata alla sua vita…

«Ci sono esperienze, nella vita, che aprono nuovi orizzonti e fanno scoprire nuovi traguardi. Ai miei tempi i giovani cercavano nell’Oriente una guida spirituale per crescere in pace. Io, nel 1975, girovagavo fra l’Iran, l’Afghanistan, il Pakistan e l’India. Non avevo una patente, né tanto meno soldi e per muovermi utilizzavo il Magic Bus oppure il treno. Mezzi di trasporto che mi sono rimasti indelebilmente impressi. Peraltro ricordo volentieri la rete ferroviaria indiana, una tra le più estese al mondo, che emanava un fascino del tutto particolare e unico e sembrava racchiudere dentro di sé l’India, con tutti i suoi umori, colori, odori. Quando aprivo il finestrino la fuliggine della locomotiva mi penetrava addosso, ma poteva capitarmi anche peggio. Come quando restai seduto sul tetto di un treno per ben 36 ore. Il Magic Bus è un percorso artistico che rappresenta il senso del viaggiare, ed è forse l’espressione più importante della mia vita».

Quanti Paesi ha visitato?

«Tanti… Nel 1975 sono partito per l’Hippie Trail. Ho visitato i Balcani, la Grecia, la Turchia, l’Iran, l’Afghanistan, il Pakistan, l’India e il Nepal. Ricordo che le agenzie chiedevano uno sproposito per viaggiare e io con quei soldi ci campavo dodici mesi in India; così era più economico partire da soli. Successivamente ho viaggiato in Norvegia, in Svezia, in Finlandia, in Australia, in Indonesia, in Thailandia, in California, in Messico, nel nord Africa, in Germania e in Spagna. Entrando nel dettaglio: dal 1980 al 1988 ho vissuto a San Francisco, negli Stati Uniti; nel 1991 ho fatto la stagione estiva sulla riviera romagnola in Italia; poi sono partito per le isole greche. Più tardi, dal 1993 al 1996, ho fatto l’aiuto cuoco in Germania. Infine è arrivata la Spagna, un posto davvero speciale: vivevo a Ibiza, un’isola strepitosa».

Qual era il suo segreto per viaggiare?

«Lavorare nei Paesi ricchi e viaggiare nei Paesi poveri».

In tutto questo peregrinare com’è giunto all’arte pop?

«Sono un autodidatta e provengo da esperienze psichedeliche; sono arrivato all’arte andando in giro per il mondo. Ricordo mia nonna che coltivava 120 tipi di erbe anche se non era mai uscita da Ovaro. Tuttavia quando ero bambino mi sentivo oppresso e avevo bisogno di scoprire il mondo. Nel 1959, a 7 anni, fui costretto a seguire i miei genitori a Neuchâtel, in Svizzera, ma ebbi l’opportunità di iscrivermi alla scuola di pasticcere. Nel corso dei miei viaggi ho apprezzato la Pop Art, l’Iperrealismo e i lavori di Keith Harring, di Jean Michel Basquiat e di Andy Warhol. Coerentemente con il messaggio della Pop Art, che predilige l’impiego di materiali poveri e di riciclo, realizzo le mie opere esclusivamente con cartoni usati, dischi di vinile e ritagli di giornale».

Quando è stato illuminato dalla pittura?

«A 42 anni a Bonn, nella Renania Settentrionale – Vestfalia. Abitavo di fronte alla casa di Ludwig van Beethoven e facevo l’aiuto cuoco, ma avevo tante cose in testa. Bonn era ancora la capitale della Germania prima dell’unificazione con quella dell’Est. Poi la città sparì assieme al muro di Berlino nelle conseguenze secondarie della storia. Non ero ancora un pittore né un artista, ma sentivo che avevo qualcosa dentro. Poi, nel 1996 sono arrivato in Spagna e qui ho iniziato a dipingere paesaggi fantasiosi. Nel 2004, con mia grande gioia, sono ritornato in Friuli. Un’illuminazione che mi ha portato a capire finalmente quello che volevo».

Del suo Hippie Trail cosa ricorda in particolare?

«Al Pudding Shop di Istanbul – tappa obbligata per chi volesse compiere il “grande salto” per arrivare in India – mi ricordo un turco che sembrava un lottatore di sumo e si fumava un cannone. Esisteva una bacheca affissa al muro per quanti cercassero un passaggio per raggiungere Kabul, in auto o su furgone Volkswagen modello T1 o T2. Chi partiva sarebbe diventato l’ultimo viaggiatore romantico del pellegrinaggio verso l’Oriente. Poi sono arrivati gli aerei e i treni super veloci…»

E in quel Pudding Shop cosa successe?

«Conobbi due toscani che volevano andare a Teheran, in Iran, allora governato dallo Scià di Persia. Soldi non ne avevamo e quei pochi in tasca dovevamo spenderli per realizzare i nostri sogni fatti di viaggi, divertimenti ed evasioni. A bordo di una Ford Taunus li accompagnai al confine con l’Afghanistan. Ma l’auto era ridotta malissimo con le portiere bloccate, i finestrini cigolanti e le molle sui sedili. Così, non restò altro che abbandonarla alla frontiera».

In Australia invece andò peggio…

«Avevo il visto in scadenza e l’ufficio immigrazioni mi costrinse a partire. Cosicché m’imbarcarono sul primo aereo  disponibile. Il 26 luglio 1990 raggiunsi Singapore».

Torniamo al presente: 91 mila contatti sul web con i suoi Tacons – Supposte di Friulano. Sembra che la rete sia divenuta la continuazione del suo viaggio in giro per il mondo. Qual è il segreto?

«Per me è stato abbastanza semplice: ho usato la spontaneità che mi ha sempre contraddistinto. Inoltre parlando sufficientemente bene cinque lingue ho potuto confrontarmi con popoli e culture. Attraverso il viaggio ho imparato l’arte della comunicazione che adesso metto in pratica sui social network. D’altronde Facebook e YouTube sono una finestra sul mondo».

Da dov’è iniziato il suo successo?

«Senz’altro con L’uomo di Cartone, un video documentario del regista Andrea Scalone che mi ha consacrato su Facebook. Ma anche O’ Rey, un orologio dedicato al bomber Totò Di Natale, che con l’uso di messaggi subliminali, intendeva mettere al bando il trasferimento di O’ Rey Di Natale alla Juventus. Che alla fine rimase a Udine…»

Siamo arrivati alla conclusione. Se Luciano Lunazzi dovesse partire per un altro viaggio dove andrebbe?

«In Argentina, non ci sono ancora stato. Quando potevo andarci comandava la dittatura, ma per mia scelta non ho mai visitato Paesi autocratici».

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