Mastro Bottaio

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redazione

8 Settembre 2016
Reading Time: 6 minutes

Cristiano Visintini

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Seduto all’ombra del portico di un ristorante sui colli di Rosazzo, lo sguardo magnetico di Cristiano Visintini emana un’energia vitale. Davanti ai nostri occhi la natura del Collio sembra estendersi all’infinito, mentre il cielo terso regala una vista suggestiva all’orizzonte con una lingua di mare che sembra unire idealmente Grado e Lignano. Limitando il campo visivo, invece, si possono scorgere le case di Dolegnano, località dove questo imprenditore, friulano fino al midollo ma dalla visione a 360 gradi sul mondo, ha deciso di abitare assieme alla compagna – enologa – e ai loro due figli.

Per comprendere la storia bisogna affrontare un viaggio a ritroso nel tempo, varcando i confini nazionali ma anche quelli dell’ordinarietà: perché per poter realizzare i propri sogni bisogna saper mettersi in gioco senza se e senza ma. Rischiando in prima persona, con la determinazione di raggiungere gli obiettivi che ci si pone.

«Da adolescente – racconta Visintini – ottenevo ottimi risultati nel settore della robotica e automazione, tanto che alle scuole superiori mi specializzai in meccatronica. Tuttavia, dopo il diploma, la mia esperienza nel settore durò poco: il lavoro prevedeva molta progettazione e poca realizzazione dei progetti, così decisi di cambiare strada e iniziai a fare il falegname».

 

L’inizio di una nuova avventura.

«Un giorno una signora mi chiamò per realizzare una scarpiera sulla sua barca. Rimase soddisfatta del prodotto e mi fece una richiesta aggiuntiva: realizzare un secchio in legno per la macerazione delle rape. Glielo costruii pur non avendo né arte né parte. Ma lì nacque l’idea per il mio futuro».

Da un semplice secchio alle botti… Quali furono i primi passi?

«Prima iniziai a vistare le aziende agricole del Friuli per comprendere quali fossero quelle di maggior prestigio, poi mi rivolsi alla Chambre de Métiers francese per trovare un’occupazione in una delle realtà oltre confine».

Perché proprio la Francia?

«Dal punto di vista di realizzazione tecnica, per quanto concerne le botti di grande dimensione l’Italia non è seconda a nessuno. Ma a me interessava principalmente la realizzazione delle barriques (botti di piccola dimensione) e, soprattutto, volevo comprendere la chimica del legno: settore in cui la Francia era avanti anni luce».

Come andò a finire?

«Telefonai decine e decine di volte, finché un giorno un’operatrice della Chambre de Métiers – Sophie, ne ricordo ancora il nome – mi disse che avevo avuto il via libera. Era il 1994 e avevo vent’anni:  vendetti subito la Vespa e partii. Durante la settimana lavoravo come operaio in un’azienda del settore e nel week end percorrevo in autostop i 120 km che mi separavano da Bordeaux per frequentare all’Università cittadina gli studi sulla correlazione legno-vino».

Una scelta lungimirante.

«Ancora oggi molti produttori di botti conoscono poco il vino, così come la gran parte dei produttori di vino conoscono poco il legno. Sapere invece qual è il tipo di legno più adatto per la miglior  conservazione di una determinata qualità di vino è una discriminante decisiva».

Dopo tre anni rientra in Italia e il 12 aprile 1998 apre la sua attività: come fu l’avvio?

«All’epoca decisi di partire all’incontrario: prima volevo ricevere gli ordini e solo successivamente pensare a come produrre le cose. Spedii seicento lettere scritte a mano ad aziende italiane e straniere, presentandomi come manutentore di botti. All’epoca non c’era la comunicazione in tempo reale di oggi e così pensai, una volta completato l’invio, di dedicarmi alla ricerca di una sede e dei macchinari».

Invece?

«In una settimana ricevetti cento richieste di manutenzione. Iniziai subito a lavorare nel garage di casa: gli ordini in attesa erano talmente tanti che non avevo nemmeno il tempo di andare a cercare una sede per la mia azienda. Lavorai in quel garage per quattro anni».

Fino al 2002, quando decide di fondare la Mastro Bottaio srl: oggi come descriverebbe la sua azienda?

«Un’azienda piccola ma collocata in posizione medio alta sul mercato, con una capacità produttiva versatile, in grado di offrire un quadro aromatico molto ampio grazie ai legni con cui lavoriamo. Oltre alla produzione di botti per alcol, vini e birre, una parte fondamentale del nostro lavoro è dedicata alla ricerca sulla materia prima e alla riproduzione delle piante: per noi è fondamentale il rispetto della natura e uno sviluppo bio della nostra attività».

Un’azienda italiana ma dalla vocazione internazionale…

«Oltre alla nostra sede a San Vito al Torre ne abbiamo anche una in Croazia per il reperimento della materia prima, a seguito di una collaborazione avviata con l’Università di Zagabria. Ovviamente non lavoriamo solo rovere croato, ma anche legno proveniente da Francia, Inghilterra, Austria, Ungheria e Serbia. Per quanto concerne invece il mercato di riferimento, per nostra scelta il 65% è costituito da quello italiano».

Dalla sua esperienza cosa significa essere imprenditore in Italia piuttosto che all’estero?

«Faccio una premessa: sono innamorato dell’Italia e continuo a portare avanti il marchio Italia. L’apertura di una sede in Croazia è legata esclusivamente al reperimento della materia prima e non per questioni economiche. Tuttavia qui in Italia esiste un freno a mano biologico/amministrativo innegabile: con una tassazione triplicata rispetto agli altri Paesi il nostro primo concorrente è proprio lo Stato. È matematico che qualsiasi imprenditore a parità di costo rispetto ai competitors esteri ha una marginalità di guadagno più che dimezzata».

Nel 1998 quando ha iniziato la sua attività era da solo. Oggi conta oltre venti dipendenti tra Italia ed estero: qual è il segreto per una corretta gestione aziendale?

«Parto da un presupposto basilare: qualsiasi azienda deve avere sempre la certezza di poter portare a termine le richieste dei clienti. Qualunque percorso di crescita deve tenere conto di ciò. Per sviluppare un’azienda è fondamentale individuare persone preparate e motivate, a cui poter affidare responsabilità. Essere professionisti per me non significa avere una partita iva, ma essere persone corrette con voglia di fare: merce sempre più rara al giorno d’oggi. Io ho la fortuna di avere dei collaboratori – non mi piace definirli dipendenti – formati non solo dal punto di vista meccanico, ma anche di degustazione e di dialettica, in grado di portare avanti direttamente i progetti con i nostri clienti».

Nell’era della tecnologia e della meccanizzazione dei processi produttivi, il vostro lavoro conserva ancora il tratto artigianale. Come mai?

«Una delle scelte di cui vado più fiero è stata quella di rallentare tempi e potenzialità produttive per focalizzarci su come soddisfare al meglio il cliente. La nostra azienda ha scelto di produrre botti con macchine semplici, per meglio valorizzare la parte artigiana del lavoro. A differenza di altre realtà, dove l’operaio specializzato dietro alla macchina di ultima generazione non è più in grado di operare quando sorge un problema in cantina, noi riusciamo ad avere una visione versatile ed efficace in qualsiasi fase. Non è un caso che nel nostro campo la figura del manutentore sia sempre più difficile da trovare».

Abbiamo parlato di estero e Italia, restringiamo il campo al Friuli Venezia Giulia: come ne valuta la mentalità imprenditoriale?

«Qui ci sono persone con capacità incredibili e in regione spendiamo circa l’8% del PIL per la ricerca, dato molto elevato. Però quando vediamo il nostro magazzino vuoto siamo contenti perché abbiamo venduto tutto e tendiamo ad adagiarci, quando invece è proprio in quei momenti che le risorse disponibili andrebbero investite in sviluppo. E da questo punto di vista ci manca la capacità di fare distretto, di guardare oltre all’interesse del singolo».

Il mondo istituzionale in questo caso come potrebbe intervenire?

«I primi a cambiare mentalità dobbiamo essere noi. Anche perché siamo proprio noi che eleggiamo i nostri rappresentati a livello istituzionale. Il problema è che ormai c’è una tale distanza tra la politica e il mondo reale che è perfino difficile avviare un colloquio, trovandosi di fronte persone che non sono preparate e che non conoscono minimamente i problemi da noi affrontati nel quotidiano. Anche per questo, forse, sarebbe necessaria una rottura dello statu quo».

Pessimista per il futuro?

«No, anzi. Dobbiamo continuare a puntare sulla ricerca, restando sempre attivi per comprendere gli sviluppi del mercato. Fino a sei anni fa, ad esempio, non avevo mai preso in considerazione le birre: ora produciamo botti apposite anche per questa bevanda. Con le potenzialità offerte dal mondo di oggi il limite allo sviluppo è solo la fantasia».

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