L’architetto dell’archeologia

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Margherita Reguitti

4 Settembre 2018
Reading Time: 6 minutes

Giovanni Tortelli

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Aquileia romana – patrimonio di storia, architettura, cultura, potenza economica, cosmopolitismo, spiritualità e bellezza – entra nel futuro con la forza rivoluzionaria di un nuovo linguaggio contemporaneo che sappia parlare al mondo.

A 136 anni dall’inaugurazione dell’Imperial Regio Museo dello Stato austroungarico, avvenuta il 3 agosto del 1882 nella villa neoclassica dei conti Cassis Faraone di Aquileia, è stato aperto il nuovo MAN – Museo Archeologico Nazionale. Un intervento voluto e sostenuto dal Ministero dei Beni e delle Attività culturali nella città riconosciuta dall’UNESCO patrimonio dell’umanità. Un intervento articolato in diversi lotti, realizzato con il contributo anche di privati attraverso lo strumento dell’art bonus, per un investimento complessivo di 4 milioni e 500 mila euro.

Il nuovo progetto museologico, inaugurato alla presenza del ministro Alberto Bonisoli, è stato curato dall’architetto Giovanni Tortelli dello studio Tortelli Frassoni Architetti Associati GTRF di Brescia, realtà d’eccellenza internazionale nel settore. Un lavoro di squadra realizzato con il contributo di professionalità interne al MiBAC, fra le quali Luca Caburlotto, direttore del Polo museale del Friuli Venezia Giulia, e Marta Novello, direttrice del MAN.

Non è la prima volta che lo studio Tortelli Frassoni firma un intervento ad Aquileia. Lo scorso anno aveva portato a termine il restauro dell’edificio dell’ex stalla Violin e in precedenza la realizzazione della struttura architettonica e l’allestimento dei mosaici dell’Aula Sud del Battistero antistante la Basilica, come ci conferma l’architetto Giovanni Tortelli in questa intervista.

Architetto Tortelli, perché questo nuovo allestimento del patrimonio archeologico, di reperti, mosaici, epigrafi e manufatti può essere definito rivoluzionario?

«La forza della narrazione e la contemporaneità lessicale del percorso proposto al visitatore attraverso la scelta dei reperti esposti è il vero elemento che connota la differenza con la precedente impostazione museale del MAN, che presentava tratti vicini a un modello Ottocentesco. Oggi sono cambiati i canoni di comunicazione e di racconto del museo, soprattutto archeologico, che non si rivolge più solo a esperti o appassionati ma al mondo, dunque anche a un pubblico privo di preparazione. Questo non significa abbassare il livello scientifico della proposta, ma rendere la storia della città e dei suoi abitanti, della sua potenza e cultura più comprensibile. Non viene abbandonato il rigore scientifico, ma lo si propone da un’angolazione diversa, più addolcita e semplificata senza però cadere nella banalizzazione o rinuncia al rispetto della storia e dell’arte».

Come avete dunque impostato la sequenza degli spazi?

«Al piano terra abbiamo narrato la città pubblica, accessibile a tutti, della quale poco in proporzione è giunto a noi, viste le depredazioni susseguitesi nei secoli. La bellezza e l’imponenza del Foro, della Basilica, del Circo del Teatro e dell’Anfiteatro sono emotivamente suggerite e comunicate attraverso i mosaici, le statue e le epigrafi. Materiali che in alcuni casi erano conservati nelle barchesse o nei depositi. Viene proposta e spiegata la configurazione e l’evoluzione urbanistica, la  collocazione geografica nel mondo allora conosciuto e le fasi salienti della nascita, crescita e decadenza della città».

Ci può fare un esempio?

«Nella sezione “Aquileia porta del Mediterraneo” il cosmopolitismo della città e il suo alto livello culturale, frutto del continuo scambio di informazioni veicolate dal porto e dalle attività commerciali, sono testimoniate dalle epigrafi in latino, ebraico e greco. Tavole di storie di uomini e donne che erano gli abitanti della città».

Diversa l’atmosfera al secondo piano…

«Proprio così. Qui il visitatore entra nella vita privata della città, nelle domus riccamente decorate e arredate. Gli oggetti esposti testimoniano il tenore di vita raffinato, la passione per l’arte e la bellezza. Emerge inoltre il tipo di lavoro svolto nel commercio legato al porto, l’importanza dei riti e delle religioni. Gli oggetti in mostra nelle bacheche sono stati scelti in collaborazione con gli esperti scientifici, non solo seguendo canoni estetici, di sequenza cronologica, di provenienza dalla  stessa domus o campagna di scavo, ma piuttosto per la loro capacità evocativa del contesto dell’ambiente e della vita che raccontano. Alla base di questo metodo, in sintonia con l’esigenza di raccontare il passato, vi è uno studio molto approfondito dei luoghi, dei reperti, dei materiali e degli spazi. Un’impostazione di lavoro che abbiamo avuto la fortuna di imparare, e successivamente perfezionare, andando a bottega nello studio Albini di Milano (uno dei più importanti e rigorosi architetti razionalisti italiani del XX secolo, di fama internazionale, ndr). Citando Franco Albini non esistono cose belle o brutte. Bisogna saperle esporre. Io aggiungo: per farlo bisogna conoscerle bene, ecco perché in collaborazione con il personale della Museo e della Soprintendenza abbiamo studiato e deciso assieme, nel rispetto delle competenze, cosa esporre».

Dunque la rivoluzione del valorizzare e promuovere il passato si fonda su una nuova filosofia di allestimento e di linguaggio?

«Direi che la prima manifestazione dell’importanza di un reperto è data dall’allestimento, segue poi la parte didattica ed esplicativa che noi come studio progettiamo e realizziamo con pari attenzione. Anche qui posso fare un esempio citando la sezione dedicata a vari oggetti in vetro (Aquileia fu un importante centro di produzione vetraria, ndr). I visitatori sono affascinati e sbalorditi non solo dalla bellezza e dalla varietà di colori dei manufatti esposti, ma colgono la ricchezza della qualità e la complessità delle tecniche produttive. Attraverso questi oggetti comprendono la raffinatezza degli abitanti. Percepiscono che il gusto di una casa, oggi come ieri, non è dato dalla consequenzialità cronologica o dall’uniformità di origine degli oggetti, decori e utensili, ma dalla varietà di datazioni e provenienze, e che la bellezza d’insieme rappresenta il gusto e la personalità di chi li ha scelti».

Il MAN è da sempre ospitato in un edificio storico; che rapporto esiste fra contenitore e contenuto?

«La relazione fra l’opera d’arte, il reperto e lo spazio architettonico è strettissima e noi poniamo la massima attenzione al restauro o alla creazione di spazi architettonici in chiave di fruibilità contemporanea, dove il percorso narrativo delle opere deve coincidere con la dimensione e sequenza degli spazi. Questo metodo è stato applicato negli interni di Villa Cassis Faraone anche in relazione con gli spazi esterni, importanti per la presenza di essenze arboree secolari. Lo stesso metodo, ma in un contesto diverso, è stato applicato negli interventi dell’Aula Sud nell’area del Battistero dove un volume di architettura moderna è stato creato per conservare i mosaici, senza ricostruzioni ma con suggestioni ed evocazioni di quello che c’era. Ancora nel progetto della ex stalla Violin abbiamo mantenuto la stratificazione degli edifici costruiti successivamente. Nell’intervento a Gerusalemme, nel Museo della Custodia francescana in Terra Santa, abbiamo lavorato in un contesto ipogeo, in ambienti pluristratificati fino a oggi sottoutilizzati ma che si sono rivelati di straordinaria importanza. Diverso per ampiezza e complessità l’intervento al Museo di Santa Giulia di Brescia. Come vede situazioni differenti unite da un metodo via via adattato nel rispetto del contesto nel quale operiamo».

Quali sono le reazioni che vi aspettate nel visitatore dai vostri progetti museografici e allestitivi?

Apprezzamento del racconto proposto con un linguaggio comprensibile e di oggi, non gridato né provocatorio, ma costruito su basi scientifiche. Ci piacerebbe che il turista italiano e internazionale fosse sbalordito e incuriosito, non tanto da suggestioni estetizzanti ma da un coinvolgimento emotivo, frutto della comprensione delle opere d’arte e dei reperti. Certo il visitatore non deve capire o sapere tutto uscendo da un museo, anzi deve conservare la curiosità di approfondire, per proseguire così il suo viaggio nella conoscenza».

 

Giovanni Tortelli, classe 1957, dopo la laurea con Franca Helg al Politecnico di Milano affronta, assieme al suo futuro socio Roberto Fassoni, le prime esperienze formative nello studio BBPR a fianco di Lodovico Barbiano di Belgiojoso e quindi nello studio Albini-Helg-Piva dove maturano una coscienza progettuale da artigiani, libera dalle seduzioni dell’architettura di tendenza. Coerenti a questa impostazione ottengono riconoscimenti a concorsi nazionali e internazionali e partecipano al dibattito sul ruolo dell’architettura contemporanea attraverso gli impegni didattici universitari (a Milano e a Genova) e la ricerca progettuale, a varie scale, applicata principalmente in ambiti storici e monumentali. In campo museografico e allestitivo tra le opere più note si ricorda il Museo di Santa Giulia e le Domus dell’Ortaglia a Brescia, il museo diocesano a Vicenza, il museo archeologico a Cremona, il padiglione temporaneo per il sito archeologico di piazza Sordello a Mantova, il Museo e Tesoro della Cattedrale a Bergamo, l’aggiornamento del percorso museografico di Palazzo Bianco e del museo diocesano a Genova, nonché i musei della Custodia a Gerusalemme.

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