Un Van Damme friulano

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Michele D'Urso

6 Settembre 2019
Reading Time: 5 minutes

Alan Vidoni

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Negli anni novanta andavano di moda i film di Jean Claude Van Damme ambientati nel mondo della muay thai; o era sulla kick boxing? Ma non sono la stessa cosa? Sono il solito profano della materia e chiedo aiuto ad Alan Vidoni, un Van Damme nostrano, friulano doc, che mi illuminerà sull’argomento.

«La muay thai – spiega – è l’arte marziale che Van Damme, in modo cinematografico, metteva in scena nei suoi film; la kick boxing, diversamente, è una forma di combattimento derivata dalla muay thai, nella quale sono stati eliminati i colpi più pericolosi, quali ginocchiate, gomitate e tecniche anch’esse devastanti, come il clinch e le proiezioni atterranti. La kick boxing è una disciplina sportiva, come il pugilato, non un’arte marziale».

Lei quando ha cominciato a praticare arti marziali?

«Ho cominciato a 25 anni in maniera del tutto casuale, incontrando un ragazzo mio coetaneo il quale poi sarebbe diventato il mio Maestro. Fino a quel momento avevo praticato sport di squadra, come il calcio, dove pur cavandomela abbastanza bene, sentivo che quello non era il mio mondo. Invece i guantoni mi hanno attirato subito, nonostante gli allenamenti durissimi ai quali il Maestro ci sottoponeva sin dal principio. Sentivo che era giusto essere lì e non mi sono mai lamentato della fatica fatta e dei colpi presi; d’altronde non ero l’unico a intuire che in quella palestra ci si allenava con metodi tanto efficaci e pratici quanto ancora attuali, poiché venivano ad allenarsi anche atleti da Gorizia e altre parti della provincia».

Affrontare uno sport così estremo è una questione di coraggio consapevole o un ardimentoso cimentarsi a sfidare il pericolo?

«Si affronta tutto per gradi; nessuno va allo sbaraglio. Gli allenamenti duri insegnano a crearti il carattere da combattente, sia nel fisico che nella mente che nello spirito. Porti a segno i tuoi colpi ma li incassi anche, impari a non esaltarti, mantenendo la guardia sempre alta anche quando le braccia ti esplodono per la fatica, anche se intuisci di essere in vantaggio. Impari a non svilirti se ti trovi di fronte a un avversario particolarmente in forma, che combatte il suo match cercando di surclassarti».

Quando ci si trova a gestire una situazione di ‘emergenza’ come un combattimento, non si vede l’ora che finisca oppure si entra nel vortice dell’‘ancora un colpo’?

«La preparazione che sta alla base della muay thai o della kick boxing non viene acquisita dall’atleta così per caso, guardando i video su YouTube, ma dopo anni di lavoro duro in palestra, e l’apprendimento dello stesso non finisce praticamente mai. Perciò senti che non ti devi fermare mai, non ti fermeresti mai».

Un famoso insegnante di una ‘ginnastica dolce’, che poi era anche un grande maestro di arti marziali, all’inizio dei suoi corsi richiamava l’attenzione sul significato dell’essere definito ‘un uomo buono’, sostenendo che non competere in nessun campo è una coercizione educativa limitante per qualsiasi individuo. Lei concorda? Ovvero, praticare uno sport da combattimento può davvero aiutare l’evoluzione di un individuo?

«Sono d’accordo con il pensiero espresso da quel Maestro: praticare sport da combattimento non ti rende “cattivo” mentre restare sul divano fa di te un uomo “buono”. Sostituirei la parola competizione con  “confronto” e questo rende facilmente intuibile che ogni confronto ti arricchisce di un esperienza e quindi fa di te un uomo migliore. Si usa anche dire “confrontarsi sul ring”, ma certamente si può applicare il concetto in ogni campo della vita. Più sei ricco di conoscenze dovute alle esperienze acquisite meglio ti confronti con chiunque, anche e soprattutto con te stesso».

Parliamo del suo palmares.

«Sono stato un atleta comune spronato dalla propria voglia di arrivare un po’ più in là, di mettersi alla prova costantemente come tantissimi altri. Non sono stato un campione e le classifiche non mi interessano più di tanto. Per me ha valenza quello che si fa senza rimpianti e senza scuse. È stato tutto molto naturale: prepararsi, andare a combattere, passare a fare il trainer per trasmettere quello che avevo appreso. La vittoria è una cosa effimera, non la si possiede per sempre. Questo dovrebbe essere lo spirito che ti fa continuare a fare quello che stai facendo».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Qual è l’atleta o il maestro che più l’hanno impressionata o ai quali si è ispirato?

«Ci sono alcune persone che durante il mio percorso sportivo mi hanno impressionato per il loro modo di essere, ognuna di loro con il proprio stile. Cito i Maestri Alfio Romanut del Team Satori di Gorizia, colui il quale, fra l’altro, ha portato ai vertici mondiali i fratelli Petrosyan; il mio primo Maestro Luca Battista, che mi ha accompagnato per tantissimo tempo. Come non citare Stefano Busolini il mio attuale “mentore” di krav maga e functional training, discipline da me attualmente praticate. Ho smesso di praticare la muai thai, ma non voglio diventare un ex atleta e appendere tutto al famoso chiodo. Ci tengo a precisare di non essere il solo ad ammirare le persone che ho citato: il loro lavoro e il loro valore sono unanimemente riconosciuti».

A proposito, lei qualche film di Van Damme lo ha mai visto?

«Certamente, almeno quelli più famosi. E ammetto che in qualche modo possono aver stimolato la mia voglia di indossare i guantoni, ma sicuramente non ne ho mai fatto un ideale. Bisogna sempre tenere presente il quotidiano, il lavoro, gli affetti».

Eh già, la vita non è un film, ma è affascinante lo stesso, anche nella sua quotidianità: è lì la nostra lotta, dove un figlio di uno sport minore come Alan, che ringrazio per avermi raccontato – con il suo stile sobrio – le proprie esperienze sportive, ben impersona il concetto del ‘Mito della porta accanto’ che può celarsi in ognuno di noi. Hokka Hey!

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