Bulli? Solo in gruppo

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Andrea Fiore

14 Maggio 2014
Reading Time: 3 minutes

Giovani ed eccessi

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C’era una volta il bullo. Solitamente era un giovane che viveva una situazione sociale e familiare svantaggiata. Sovente emarginato, ritrovava nei gesti di prevaricazione verso l’altro un senso di affermazione che la vita gli aveva negato.

C’era poi il bullismo. Un insieme di prepotenze perpetrate nei confronti dei più deboli. La maggior parte delle volte in contesti codificati nel tempo: il bullismo verso le matricole a scuola o quello verso le reclute nell’esercito, per fare due esempi. Comportamenti deprecabili, talvolta però istituzionalizzati dalla consuetudine: ‘è sempre stato così, una volta tocca a me essere la vittima, fra un anno sarò io il carnefice’.

Questi scenari – su cui ampiamente si è dibattuto – hanno subito mutamenti inimmaginabili fino a pochi anni fa, seguendo un’evoluzione della società spesso difficile da comprendere in tempi rapidi, ma che le nuove generazioni stanno facendo propria, con pericolosi effetti collaterali.

Caos di gruppo

Analizzando la quotidianità in ambito adolescenziale, tra gli esperti dei Servizi sanitari si sta facendo largo in modo sempre più nitido una convinzione: il bullo come lo abbiamo inteso per anni non esiste più. Il concetto di prevaricazione verso qualcuno “catalogato” come inferiore ha lasciato posto al gusto di commettere atti di violenza in qualsiasi contesto. Purché sostenuti dall’azione di gruppo.

Ciò che infatti emerge è una realtà dalla doppia sfaccettatura che coinvolge i nostri giovani: quella di ragazzi che, presi singolarmente, trascorrono il proprio tempo libero isolati davanti ai computer, quasi dissociati dal mondo circostante; una volta in gruppo, invece, quegli stessi ragazzi diventano incontenibili, come se lo stare assieme avesse un senso solo per commettere eccessi.

Consapevolezza di nulla

Il problema principale, tuttavia, appare un altro. Le manifestazioni di questi eccessi sono sempre più precoci, e trovano il proprio fulcro nella fascia di età di coloro che frequentano le scuole medie. Si tratta della prima fase adolescenziale: un periodo molto delicato nella vita di un giovane, in cui spesso i ragazzini non hanno ancora sviluppato un senso della morale o una capacità critica sulle proprie azioni.

Succede così che a scuola sempre più frequentemente, di fronte alla domanda “Ti rendi conto di ciò che hai fatto?” posta dall’insegnante, i ragazzi reagiscano in modo spaesato. Come se il misfatto commesso rientrasse nei modelli di normalità che loro assorbono dal quotidiano. E, purtroppo, hanno ragione.

Esempio e fermezza

“In gruppo i ragazzi sono ingestibili. Cosa possiamo fare?”. Non è un luogo comune, ma una delle domande più frequenti che gli insegnanti pongono ai referenti dei Servizi sociosanitari. La risposta abbraccia due sfere diverse della nostra società. La prima riguarda gli esempi negativi che quotidianamente i nostri giovani assorbono attraverso i mezzi di comunicazione.

Dal settore dell’informazione a quello dell’intrattenimento, la violenza e le tragedie vengono propinate al pubblico (e quindi anche ai ragazzi che sono i principali utilizzatori delle nuove tecnologie) senza soluzione di continuità. Inevitabile che immagini e concetti propinati ogni giorno entrino a far parte del bagaglio esperienziale dei giovani.

Contesto che rende ancora più gravoso, ma al tempo stesso ancora più indispensabile, un atteggiamento inflessibile da parte degli adulti di riferimento. E se da un lato prevenire è sempre meglio che curare, dall’altro lato diviene necessario prevedere una pena da scontare in caso di comportamenti violenti o illegali. Perché non si può continuare a permettere ogni cosa. Nonostante tutto, infatti, la pena ha una forte valenza educativa. Anche a costo di scelte impopolari, come potrebbe rappresentare per la realtà scolastica la sospensione di numerosi studenti.

Concludo con un’esperienza personale. Di fronte a questo mio pensiero, una volta un’insegnate mi disse che assegnare pene non è un modo efficace di educare. Io replicai con un quesito: “Educare senza far rispettare la legge e le regole non è forse un controsenso?”. Anche su questa risposta si gioca il futuro dei nostri adolescenti e della nostra società.

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