«(...) Perché vualtre donne sè tropo desmesteghe. No ve contentè dell’onesto; ve piaserave i chiasseti, i pacchieti, le mode, le buffonerie, i putelezzi. A star in casa, ve par de star in preson. Co i abiti no costa assae, no i xè beli; co no se pratica, ve vien la malinconia, e no pensè al fin; e no gh’avè un fià de giudizio, e no ve fa specie sentir quel che se dise de tante case, de tante fameggie precipitae; e chi vol viver in casa soa con riguardo, con serietà, con reputazion, se ghe dise, vegnimo a dir el merito, seccaggine, omo rustego, omo salvadego»
Questo di Lunardo è solo uno dei tanti, coloriti rimproveri che i Rusteghi, nell’omonimo capolavoro di Carlo Goldoni, rivolgono alle loro donne, colpevoli di qualche innocente richiesta (andare a teatro, partecipare al Carnevale, modificare un vestito...) I ruvidi tratti dei quattro protagonisti ci appaiono esilaranti oggi come nel 1760, quando la commedia debuttò con enorme successo al Teatro San Luca di Venezia, al culmine di una stagione davvero felice per l’autore. In realtà essi – mariti quasi misogini e padri padroni – incarnano un’acida caricatura di Pantalone, la prima figura goldoniana del borghese consapevole e limpido, onesto e avveduto. L’etica e la tirannia dei Rusteghi, non sono invece che la scorza di un’icona che non ha più anima e che l’autore guarda con sempre maggiore scetticismo, anche se riesce contemporaneamente a ricavarne grande divertimento. «Se i rusteghi tendono a chiudersi dentro le loro case come in una fortezza impenetrabile – spiega il regista Giuseppe Emiliani, già applaudito a Trieste nel 1995 per Una delle ultime sere di Carnovale – le donne guardano alla vita, all’esterno, ai contatti sociali, ai doveri dell’amicizia e della parentela, ai diritti del sentimento. I rusteghi no. Si sentono minacciati dai grandi rivolgimenti che stanno per toccare Venezia e riescono a esistere soltanto nel chiuso delle loro mura domestiche, dove agiscono con prepotenza insopportabile vietando visite, divertimenti, sprechi e frivolezze e ogni minima forma di ozio, soprattutto il teatro». Ma il teatro ed il carnevale irrompono comunque nelle loro case, proprio grazie alle donne, capitanate dall’emancipata siora Felice. Una loro trovata permette infatti a Lucietta – figlia di Lunardo – e a Filippetto, figlio di Maurizio, di conoscersi prima delle nozze che i due padri-rusteghi avevano combinato, senza che i due giovani si fossero mai incontrati. Per fortuna, l’amore sboccia al primo sguardo e le mani dei giovani si intrecciano tra le burbere benedizioni dei padri, che devono subire la celeberrima “renga” finale di siora Felice.
Una compagnia molto sicura si impegna in questo classico: un testo perfetto, dal linguaggio forte, in cui non c’è nemmeno una battuta sbagliata. Molti i “precedenti” significativi: da menzionare almeno l’illuminante lettura di Massimo Castri, e prima, l’impeccabile allestimento di Luigi Squarzina che nel 1974 è stato ospite anche dello Stabile regionale.