Il 2010 è iniziato con un’eredità pesante: l’anno appena trascorso sarà forse ricordato come l’annus horribilis negli annali della storia economico sociale dell’era moderna, lasciandoci uno scenario che proietta più ombre che luci nell’immediato futuro delle famiglie, dei lavoratori e delle imprese italiane.
Le notizie apparse sui giornali nelle ultime settimane non sembrano infatti rassicuranti : “PIL 2009 giù del 4,9%”, “Cala il potere d’acquisto delle famiglie”, “Diminuiscono i consumi ma aumenta la propensione al risparmio”, “Rendimenti dei Bot sotto zero”, “La spesa pensionistica tocca il 15% del PIL”, “Il peggio è passato, ma la ripresa sarà difficile e lenta…”, ecc. Fatti spesso mescolati ad interpretazioni divergenti, che danno chiavi di lettura con tinte che vanno dal rosa al nero a seconda della notizia del giorno, del punto di vista e degli occhiali indossati da commentatori, politici, economisti, agenzie governative, imprenditori e lavoratori. Siamo bombardati quotidianamente da informazioni che inevitabilmente sono inficiate dalla famosa regola della media del pollo: dati medi che se da un lato possono far intravedere delle tendenze generali spesso nascondono realtà molto diverse. Ad esempio, in una famiglia in cui uno dei due coniugi ha perso il lavoro non c’è indice dei prezzi differenziato per fascia sociale che possa dar conto di una reale diminuzione del potere d’acquisto del 50%, mentre per i pensionati al minimo tali differenziazioni potrebbero rivelare una perdita del potere d’acquisto doppia o tripla rispetto alla media. Cosi come ci sono settori, distretti industriali e territori che nella crisi hanno navigato meglio (come l’agroalimentare ed il farmaceutico) di altri (come l’edilizia, gli elettrodomestici, il tessile). Queste distorsioni interpretative riguardano anche le comparazioni delle performance degli Stati a livello internazionale: ad esempio è condivisibile il fatto che l’Italia abbia tenuto meglio di altri Paesi in termini di impatti sull’occupazione e sul debito pubblico, ma ciò andrebbe letto comparando i dati sulla produttività dei fattori e sul livello del debito che posizionano l’Italia tra i Paesi meno virtuosi anche prima della crisi. È come se gli altri Stati, almeno quelli industrializzati, fossero diventati più simili a noi, con debiti pubblici aumentati e sistemi di welfare poco sostenibili. Le cartucce da sparare in caso di crisi perdurante sarebbero scarse… Se poi guardassimo alle Banche, il tormentone che da mesi ci affligge con accuse che le assimilano a dei Madoff nazionali e difensori che le lodano per non aver utilizzato aiuti di Stato, il disorientamento aumenta. Anche in questo caso la realtà è diversa e più articolata. Quel che è certo è che anche le Banche in Italia pur resistendo meglio alla crisi si sono impoverite e le cure che si paventano non saranno indolori.
L’elenco è lungo e potrebbe continuare (la fiscalità, le infrastrutture, l’efficienza della Pubblica Amministrazione, la scuola, la sanità, l’assistenza, gli investimenti in ricerca e sviluppo, ecc.), evidenziando comunque e sempre un dato di fondo: l’aumento delle disuguaglianze economiche e sociali.
Già prima della crisi il fenomeno della forbice crescente che si stava aprendo tra le fasce sociali povere e quelle ricche era indicato come fonte preoccupante di malessere sociale ed economico. In Italia il 20% più ricco della popolazione aveva un reddito pari a circa 6-7 volte superiore rispetto al 20% più povero e si collocava in posizione mediana rispetto ai corrispondenti dati dei Paesi industrializzati.
Lo scoppio della crisi ha esasperato il grado di disuguaglianza all’interno dei singoli Paesi in presenza di una diminuzione del reddito medio pro capite. Ma ciò che recenti ricerche confermano è che: la crescita economica ed il livello di reddito influiscono poco sul benessere dei Paesi ricchi; il livello di benessere di ciascun Paese è legato alle differenze di reddito al suo interno; le problematiche sociali in senso lato aumentano all’aumentare delle disuguaglianze economiche. In altri termini, una volta superato un certo tenore di vita materiale (diciamo intorno ai 20-25.000 euro di reddito medio annuo) i benefici di un’ulteriore crescita economica sono scarsi.
L’altra faccia della medaglia consiste nel fatto che in Paesi con livelli di reddito medio pro capite simile (vicino a tale soglia), il livello di benessere (speranza di vita, tassi di mortalità, disagi mentali e patologie mediche, criminalità, ecc.) varia notevolmente in relazione alla sperequazione nella distribuzione del reddito.
La contraddizione che viviamo tra benessere materiale e benessere sociale (solo due anni fa avevamo raggiunto livelli di agiatezza mai conosciuti nella storia) è peraltro riscontrabile nelle ansie, insicurezze, depressioni che spingono a comportamenti di consumo compulsivi ed imitativi, ad eccessi alimentari, all’uso di droghe con fenomeni di isolamento e sofferenza sociale diffusi. Nelle nostre società le patologie un tempo tipiche delle fasce privilegiate della popolazione sono diventate le malattie dei poveri. La povertà era sinonimo di magrezza, la ricchezza di obesità. Oggi quest’ultima è una patologia diffusa anche nelle fasce sociali più basse mentre la magrezza è diventata il modello di riferimento per le fasce privilegiate (la crisi ha peraltro “smagrito” anche il loro livello di reddito e di ricchezza).
Cosa ci indica questo apparente paradosso? Essenzialmente due prospettive. La prima è che nei Paesi come il nostro ciò che conta è sì il livello di reddito medio, ma altrettanto importante si rivela la posizione e lo status sociale degli individui. Ciò che conta è la distanza relativa rispetto agli altri. Quando tale distanza tende ad aumentare, questa è la seconda prospettiva, ed a cristallizzarsi in situazioni di polarizzazione e blocco dei processi di mobilità e ascesa sociale, vengono intaccati significativamente i livelli di benessere generale conseguiti. La crisi rischia di amplificare il grado di disuguaglianza nella nostra collettività, aggravando i problemi che diventano più diffusi negli strati sociali più bassi generando situazioni di disagio, di degrado e di conflittualità che, date anche le scarse risorse pubbliche a disposizione, agiscono come un boomerang su tutta la società abbassando il livello di benessere complessivo.
Queste prospettive suggeriscono che le politiche e le riforme che si stanno mettendo in cantiere devono essere collocate in un quadro organico e coerente di interventi: non risulteranno efficaci politiche di riduzione degli squilibri territoriali o politiche dell’educazione o altre per migliorare l’efficienza della Pubblica Amministrazione se non saranno coniugate a politiche per ridurre le disuguaglianze sottostanti. In questo contesto si parla di exit strategy, ovvero delle politiche economiche, monetarie e fiscali più adeguate a consolidare ed accompagnare l’uscita dalla crisi, evitando di buttare via il bambino (la ripresina in atto) con l’acqua sporca (l’eccesso di liquidità creato dalle Banche Centrali e gli stimoli/spese pubbliche dei Governi). Politiche economiche che dovrebbero essere accompagnate da politiche sociali e riforme che andrebbero sviluppate in un quadro organico di interventi per la riduzione delle disuguaglianze.
L’exit strategy non riguarda soltanto gli Stati ed i Governi: essa ci tocca direttamente come persone, riguarda le nostre economie familiari, i comportamenti e le micro decisioni individuali che dovremmo adottare. Tematiche che affronteremo nelle prossime edizioni di questo giornale.
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