Sociale e privato, non profit e profit sono ancora categorie contrapposte, nella teoria e nella realtà economica? O sono categorie che stanno diventando antiquate? La storica divisione tra imprese o intraprese il cui tratto distintivo è rappresentato dalla loro diversa missione e modalità di creazione di valore è ancora attuale?
Forse la distinzione tra attività sociale e non sociale è una falsa dicotomia che tuttavia persiste come permangono tutti gli imprinting culturali radicati nella nostra società. Si parla di “imprese sociali” – quelle che sono guidate dalla missione e focalizzate sulla creazione di un cambiamento sociale positivo – e di “imprese non-sociali” – ovvero di quelle che si concentrano su ricavi e profitti.
Ma oggi gli imprenditori sociali che lanciano nuove iniziative dovrebbero chiedersi se i loro modelli di business devono essere diversi. Perseguire uno scopo sociale richiede qualcosa di unico per definire e strutturare l’azienda? E viceversa, le imprese orientate al profitto possono continuare a ignorare la valenza sociale del loro operare, in un contesto in cui le parole ricorrenti sono sostenibilità, qualità dell’ambiente, esternalità negative?
Una grande parte del problema risiede nelle aziende stesse, che rimangono intrappolate in un approccio obsoleto e limitato alla creazione di valore che è emerso nel corso degli ultimi decenni. Considerare la creazione di valore come ottimizzazione della performance finanziaria di breve termine porta a ignorare sia le più importanti esigenze dei clienti sia gli impatti sociali che determinano il loro successo a lungo termine.
D’altro canto viene da chiedersi perché poche imprese senza scopo di lucro non crescono con dimensioni di scala efficienti e non si sviluppano per il successo e i miglioramenti sociali che apportano. A quanto pare, il ciclo schumpeteriano non opera nel settore sociale.
La nostra crisi epocale, non solo finanziaria, deriva anche da questa dicotomia tra attività non-sociali e sociali, profit e non profit. La presunta contraddizione tra efficienza economica e progresso sociale è stata istituzionalizzata in decenni di scelte politiche. Successo sociale e successo economico non sono incompatibili, bisogna però superare i paradigmi, spesso vuoti, della responsabilità sociale e della filantropia in cui i problemi sociali sono alla periferia, mettendo al centro un nuovo modo di fare impresa tout court. Manca ancora un quadro generale che orienti la creazione di valore economico in modo da creare valore per la società, ricollegando però anche la creazione di progresso sociale a obiettivi di efficienza economica della gestione aziendale.
Stanno tuttavia emergendo diverse promettenti iniziative, provenienti essenzialmente dal mondo anglosassone, per realizzare progetti in settori strutturalmente sotto-finanziati come il welfare, la cultura, la valorizzazione del territorio. Ma molta strada resta ancora da fare.
La finanza sociale
Se la crisi finanziaria ci ha insegnato qualcosa, è che le regolamentazioni e le infrastrutture dei mercati finanziari fanno la differenza, nel bene e nel male. Senza trasparenza negli scambi, negli standard di mercato e nelle valutazioni, gli investitori non possono distinguere tra buoni e cattivi investimenti e i legislatori/regolatori non possono provvedere a una adeguata protezione degli investitori, dei risparmiatori e delle imprese.
Quando si tratta di valutare un’impresa sociale, le difficoltà raddoppiano. Risultano del tutto carenti strutture, operatori e competenze per valutare i profili di rischio/rendimento economico-sociale delle iniziative. Conseguentemente buone iniziative e organizzazioni non vengono finanziate mentre gli investitori rimangono focalizzati esclusivamente sui rendimenti finanziari.
Ma è possibile che si sviluppi una finanza «buona», che aiuti a creare crescita e lavoro? Forse sì. Occorre tuttavia predisporre un set di strumenti e di allineamento di incentivi che ne favoriscano il decollo. E l’esempio viene proprio dai Paesi anglosassoni in cui la finanza “cattiva” ha avuto il suo epicentro.
In Inghilterra e negli Usa si stanno infatti sviluppando i social impact bond (SIB) nell’ambito di programmi di pubblica utilità selezionati dallo Stato in cui:
- gli erogatori sono enti non profit;
- i privati finanziano il programma investendo nei titoli a impatto sociale;
- lo Stato s’impegna a restituire il capitale;
- il capitale investito viene remunerato a tassi vantaggiosi solo se il programma ha successo.
In sostanza i SIB sono uno strumento finanziario innovativo attraverso cui investitori privati forniscono il capitale iniziale per la gestione di progetti sociali dietro garanzia da parte di uno o più enti pubblici di elargire, come remunerazione sul capitale investito, parte dei risparmi generati per le casse pubbliche dal successo dei progetti stessi.
La remunerazione sul capitale investito avviene solo se i programmi raggiungono gli obiettivi sociali concordati a monte tra investitori ed enti pubblici.
Le opportunità in Italia
L’Italia è il Paese Ue con il più alto stock di risparmio privato, ma registra un enorme deficit di servizi. Nell’ultimo decennio gli enti non profit sono quasi raddoppiati a fronte della carenza di fondi pubblici causata dalla perdurante crisi economica. In questo scenario le attività filantropiche inerenti al panorama volontaristico italiano risultano frammentate e instabili e precludono ai progetti sociali di maggiore successo di consolidarsi ed espandere la massa dei propri beneficiari.
Il rischio principale è quello di un circolo vizioso in cui minori finanziamenti per programmi sociali di natura preventiva e assistenziale comportano costi sempre maggiori per lo stato sociale e ulteriori tagli ai finanziamenti stessi. Anche in Italia uno dei principali strumenti per attivare un circolo virtuoso potrebbe essere rappresentato dai social bond, le obbligazioni con finalità sociali. Emessi da banche e fondi, i social bond raccolgono risparmio privato, congruamente remunerato, per prestarlo a società (incluse cooperative, start up e così via) che vogliono realizzare progetti in quei settori oggi drammaticamente sotto-finanziati: welfare, cultura, ambiente, valorizzazione dei territori.
Una delle condizioni alla base dello sviluppo di tali strumenti è che venga a maturare una nuova cultura e un nuovo atteggiamento verso ciò che è definibile come “bene comune” e che i rischi di impoverimento e di degrado del tessuto economico sociale vadano affrontati con nuovi approcci e attori, in un gioco di squadra.
L’introduzione di un SIB comporta ad esempio il trasferimento del rischio di fallimento di un progetto sociale dal settore pubblico a quello privato. Ma se il progetto, più progetti o un programma qualificato di intervento hanno successo ne guadagnano tutti, trasformando il contribuente da soggetto passivo e soggetto attivo, nella governance e nel monitoraggio delle iniziative.
I risparmi generati dai programmi sociali di successo possono essere reinvestiti nell’espansione di altri programmi, liberando così ulteriori risorse a beneficio delle comunità. Che per tal via si possa anche risparmiare denaro pubblico e quindi ridurre la pressione fi scale?
La forza di questa innovazione, che è in primis un’innovazione di carattere sociale, sta nella convergenza di interessi che si viene a creare tra gli attori nel conseguimento di risultati sociali positivi: gli enti pubblici favoriscono l’innovazione sociale senza rischiare di sperperare i soldi dei contribuenti in programmi inefficaci; gli investitori diversificano il proprio portafoglio, rispondendo anche alla propria responsabilità sociale d’impresa; le organizzazioni non profit ricevono finanziamenti più stabili e consistenti; i cittadini vedono aumentare l’offerta di servizi sociali per la comunità .
Inutile nascondersi che le sfide da affrontare non mancano: tra le più importanti, le difficoltà nella misurazione dell’impatto sociale dei progetti finanziati e il rischio di deresponsabilizzazione del settore pubblico.
È solo sperimentando che si potrà apprezzare l’effettiva potenzialità delle obbligazioni sociali.
Alcune banche italiane e fondazioni di origine bancaria hanno già avviato iniziative in questa direzione. L’ auspicio è che questi laboratori di “buona finanza” trovino radicamento e sponsorizzazioni da parte degli enti pubblici territoriali, a partire dalle Regioni, onde adattare tali strumenti alle rispettive specificità sociali e istituzionali, nell’ambito di progetti pilota a elevata produttività “sociale”.
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