Visitare le chiese del Collio suscita ogni volta emozioni diverse. Il mutare delle stagioni, la luce che commenta tutto, sempre con maggiore ricchezza di particolari; la nebbia, soprattutto la nebbia, che raduna i pensieri, fascia natura e cose, avvicina e allontana il tempo, agisce anche sulle chiese con l’effetto che l’artista di avanguardia - il bulgaro Christo Javachef - raggiungeva con i suoi empaquetages.
La bellezza del Collio, in estate, è nello stesso tempo serena e travolgente, logica e naturale, come per un uomo o una donna di vent’anni; apparentemente minore quella in altre stagioni.
Senza vegetazione, con pioggia e nebbia, però, si avverte più in profondità, e aiuta a entrare nello spirito.
Da qualunque posizione filosofica, ideologica, culturale si parta, pensare ad una chiesa è un qualcosa di profondamente diverso rispetto ad altre opere d’arte. Qui si sente in ogni dove l’eco dell’uomo che prega, spera, crede, teme, ama; che cerca di imboccare una strada. Vite concluse, vite spezzate emergono qua e là e punteggiano i secoli, dove umili e potenti sono ricordati, come protagonisti o membri del popolo di Dio. Sinfonie degli umili sono questi muri tessuti di fatiche e di orgoglio, in tempi incomparabilmente più difficili dei nostri.
Prendiamo la chiesa parrocchiale di Brazzano: è nata nei primi del ’700, quando la pieve (comprendeva Giassico, Visinale, Sant’Andrat, Ruttars e Villanova) aveva 2.142 anime e il paese, con Giassico, ne contava 762. C’erano 14 sacerdoti, 10 chiese con Sant’Elena a Vencò.
Impressionante il numero di feste (150 giorni, comprese le domeniche) che spinse i riformatori a una drastica riduzione. Forse alcune erano appena sopportate, altre vissute intensamente. Pellegrinaggi per l’Ascensione a Castelmonte, per San Pietro a Rosazzo; la seconda di Pentecoste, a Madonna di Grazia a Udine. Scendeva dal monte per le funzioni parrocchiali, in una chiesa che già esisteva, ma così insufficiente, che metà del popolo doveva star fuori “senza poter sentire la parola divina che il parroco dispensa dall’altare”, sicché il pastore propendeva per costruire una nuova, ma le rendite erano troppo tenui.
C’era il problema del cimitero: a San Giorgio, sul monte, i muri erano troppo bassi e il pericolo degli animali incombeva. Eppure, ricorda una relazione dell’epoca, “la maggior parte del popolo vuol sepellirsi dove sono li suoi antenati, e sono fermi in questo loro vano pensiere”.
E poi c’erano i tentativi delle varie chiese di rendersi indipendenti o quantomeno autonome… Il pubblico potere veneto (Brazzano era nella Serenissima) era insistente nel controllo e, tra le osservazioni che inviava alle chiese, c’erano quelle sui contributi a camerari, campanari, sagrestani, banderari, cantori. Le spese dovevano essere setacciate nelle vicinie ed era del tutto proibito “alli camerari di far alcuna benché minima spesa in regalie, bonemani e desinari, in qualunque occasione… né consumar in simili disinari né il denaro, né i polami… che per elemosina o per entrata avessero le chiese”.
Ma l’impresa iniziò, determinata da motivi pastorali. Il parroco, pre Mauro Lunardo, impegnò tutti: chiese (più ricca di dote quella di San Giorgio), filiali, confraternite e volle quanto c’era di più bello e nuovo… così vennero 3 altari dell’udinese Francesco Zuliani, detto il Lessano, più avanti i confessionali del cividalese Mattia Deganutto e le tele di Francesco e Domenico Fontebasso.
Grandi capitali, decine di anni per arrivare alla meta, ma anche i cantori che rinunciarono ai loro modesti introiti, salvo la riserva di una merenda alla quale non sapevano dire di no.
A Vencò, la impresa fu duplice per il poco più che centinaio di abitanti sparsi nelle campagne: nel ’500 la prima costruzione, e nell’ ’800 l’ampliamento ricostruzione. Così, nel ’500 la Madonna (poi il Cristo) della Subida; nel ’700 a Cormòns con Sant’Adalberto, la chiesa dei Domenicani e di Santa Caterina (ora Rosa Mistica), la chiesa di San Giusto a Podgora.
Fino ad arrivare ai nostri anni, dopo la tragedia della Prima guerra mondiale e la ricostruzione di chiese che a volte sono frattura e non continuità con la tradizione locale (si pensi a San Floriano, Mossa…), altre volte ripensamenti con novità significative, come a Piuma, fino alla più recente costruzione di Giasbana.
Ogni chiesa ha epoche privilegiate, motivi di fondazione, sprazzi di vita più coinvolgenti e periodi in cui accompagna la gente nelle tappe della vita apparentemente sempre uguali eppure inimitabili nella irripetibilità di ogni uomo.
La piccola chiesa di San Rocco a Brazzano parla di San Sebastiano prima, invocato contro le pestilenze, poi affiancato da San Rocco che aveva fatto presa a Venezia e si era irradiato per tutta l’Europa. C’era la confraternita a San Rocco, intitolata al Santo, ed era sede anche per le riunioni di quelli che reggevano la Confraternita dei Centocinquanta, intitolata a San Nicola da Tolentino, nella vicina Cormòns.
Preghiera, suffragio reciproco, ma anche carità, che era amore del prossimo, nello statuto dei Centocinquanta, come avevano fatto i confratelli dalle cappe rosse della Confraternita del SS. Sacramento a Cormòns, attivi dal ’500 fino alla soppressione in età giuseppina verso il tramonto del ’700.
Per loro, in Sant’Adalberto, ci sono due monumenti significativi, uno artistico, l’altare cinquecentesco di Carlo da Carona, parte del quale sopravvive come custodia degli oli nell’abside, e l’altro più spirituale, il monumento funebre dei confratelli, con la lapide che fa memoria delle loro ceneri alle soglie del presbiterio, dunque accanto al Santissimo
La chiesa di Santa Apollonia ci porta le immagini di gente del ’500 aggrappata ai santi come mediatori con Dio; quella di San Giovanni o Santa Lucia, alle prime falde del monte, evoca la comune origine aquileiese, poi ribadita dalla permanenza dei Patriarchi per un secolo in terra cormonese, prima di arrivare a Cividale e poi a Udine.
I Domenicani a San Leopoldo ricordano di Venezia, della cultura portata in queste terre, del contributo alla riforma religiosa, delle nascenti istituzioni scolastiche, della loro carità, ripresa poi dai Francescani.
La chiesa di Rosa Mistica, dalle vicende affascinanti di una donna (Orsola Grotta) abile, pia e santa, continuate da San Luigi Scrosoppi e dal suo miracolo più grande, le Suore della Provvidenza.
Patetica è la vicenda della gente di Borgnano: si sente marginale rispetto alla matrice cormonese e combatte sempre per raggiungere una autonomia che arriva appena nella seconda metà del ’700 col primo arcivescovo di Gorizia, Carlo Michele d’Attems.
Il principe arcivescovo si muove con tutto il suo peso di uomo di potere per convincere il barone parroco di Cormòns, de Terzi, a condiscendere, ma poi si umilia da animo grande, fino a ricordargli che sono tutti e due vecchi e prossimi al tribunale di Dio.
Ci sono numerose cappelle gentilizie: Locatelli per tre volte (attuale palazzo del Comune a Cormòns, San Giorgio o Santa Cecilia ad Angoris, San Michele in cimitero), Del Mestri - Waiz, Taccò - Aita, Codelli…, chiese campestri, antichissime come San Mauro a Cormòns, alcune trasformate in santuari più anticamente come quella della Subida o in tempi recentissimi come la B.V. o San Marco del Preval.
Atterrate dalle guerre, di cui questa terra è stata tragicamente prodiga, sono risorte più volte. Santa Maria a Capriva, con i resti della centa, che custodiva muri meno monumentali, ma forse più preziosi, e la stessa Santa Trinità, con la sua pala d’altare marmorea che, in un contesto teologico corretto, narra, in stupefacente bellezza il miracolo della natività.
La chiesa di Sant’Andrea a Mossa è stata allontanata dalla centa dopo la Grande Guerra; ricostruita con i fondi della nuova patria, custodisce un quadro (raffigura il santo patrono) al di fuori della tradizione locale, prodotto in Toscana, che la gente ha acquistato quando era tornata nei paesi distrutti, e soprattutto umiliati.
Giasbana mostra in posizione panoramica la chiesa più nuova e luminosa, con un tabernacolo - notevole opera dell’architetto Guglielmo Riavis - e un bell’affresco del pittore lubianese Čermažar che raffigura il miracolo delle nozze di Cana in un quasi propagandistico avvertimento che, con le vigne di Giasbana, il buon Gesù aveva giustamente riservato il miracolo già per altre occasioni.
Lucinico è legata al passato dalla chiesetta di San Rocco, sul luogo di antichi passaggi e, in rottura con il passato, ad esso è legata la parrocchiale di San Giorgio, pensata certamente con affetto dal progettista Silvestri e ornata con le sculture di Costantino Novelli, le pitture e decorazioni di Leopoldo Perco.
Anche l’autonomia di Podgora da Lucinico è stata propiziata dalla ferma volontà di Carlo Michele d’Attems. Il suo titolo (di San Giusto) è relativamente recente, prima era di San Gottardo, legato, per certi aspetti al mestiere di cavatori di cui viveva il paese. La chiesa di Piuma, ricostruita con qualche problema dopo la Prima guerra mondiale, mostra all’interno una insospettata modernità, con il ciclo di affreschi di Tone Kralj, forse da leggere in parte con interpretazione ideologica dato il periodo (gli anni Trenta) in cui furono dipinti.
Ricostruita in altro luogo anche la chiesa di San Mauro, in scenografica posizione con delle quinte su Nova Gorica, Gorizia e lo sfondo attraversato da un colle scorticato trasversalmente da una strada.
La partenza di questo ipotetico viaggio era la chiesa sul colle di Mernico; l’arrivo è ancora in cima, a San Floriano, quasi una replica della chiesa lucinichese, ma con un santo che lega all’Europa di mezzo questa chiesa con un ampio sciame dallo stesso titolo.
San Floriano, martirizzato nel IV secolo, era invocato a protezione dei castelli e contro la furia delle acque e degli incendi. Sono, e soprattutto erano, espressione di comunità vive (certamente più numerose erano le comunità di Lonzano, Scriò, Dolegna), a volte vivaci, talora litigiose perfino con i loro pastori.
Brazzano, nel ’400, scrisse al patriarca che cacciasse il loro pre Nicolò perché “nui non lo volemo per cosa niuna perché el sta [qual] el lovo fra le pechore nui volemo un bon pastore”.
Non avendo altre voci per riscontro, non sappiamo se fosse stato così, ma due secoli e mezzo più tardi, pre Adalberto Pittone, un grande pievano, fa capire quale fosse il clima in questa zona. Racconta che la sua parola ha prodotto ottimi risultati perché “essendo questo popolo, popolo di confine, era popolo fiero, dedito a risse e vendette hora (sia sempre benedetto Iddio) è reso quieto”.
Le informazioni riportate in questo articolo e molte altre si trovano nel libro “Chiese del Collio” scritto da Ferruccio Tassin, edito, in 1.000 copie, nel 2002 dal Centro Studi “Antonio Rizzatti” e dalla rivista “Nuova Iniziativa Isontina”, ed esaurito da anni.
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