Oltre l’amore

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Anna Limpido

12 Maggio 2022
Reading Time: 6 minutes

Mercedes Gerometta Zollia

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Se il vostro vicino di casa fosse il proprietario del noto prosciuttificio “Ferrarini” o della maison di alta moda “Luisa Spagnoli”, voi credereste di saperlo? Sbagliato: seppur la città di Gorizia conti oramai meno di 35.000 anime, qui effettivamente vive un imprenditore di tale caratura industriale nell’inconsapevolezza dei più dei suoi concittadini.

Sto parlando di Benito Zollia, presidente della Brovedani Group Spa, leader a livello mondiale nella produzione di componenti meccaniche. Goriziano di origine, classe ’36, emigrato a Milano e poi rientrato nella terra natia per far crescere la sua numerosa famiglia in una preziosa casa del centro.

Regina di questa casa è la signora Mercedes, una bella donna a cui neppure i segni del tempo sono riusciti a confondere quel fascino che evidentemente esercitava quando, da giovanissima, riporto letteralmente le parole del marito Benito, “come un colpo di fulmine” rapì il suo cuore (e secondo me non solo il suo), lui che era un giovane intraprendente ed emancipato, nonché un corteggiatissimo sportivo.

Lei era a cavalcioni di una Harley Davidson gialla a San Floriano del Collio dove era stata accompagnata per ristorarsi dal caldo estivo con un buon bicchiere di pesche col vino. Foulard al collo, fisico minuto e proporzionato, occhi chiari e vispi. Lui la vide e se ne invaghì così come sa essere travolgente l’amore di un ventenne pieno di sogni.

Ho fortemente voluto la signora Mercedes per tante ragioni: perché musa di un industriale goriziano così affermato (lui le ha dedicato anche il libro autobiografico “Time Out”), perché sintesi di grande forza e pacatezza, perché pittrice in una Gorizia che negli anni ottanta tentava di far capolino nel mercato artistico ma anche per l’amore celebrativo di uno dei figli.

E poi per guardare oltre le apparenze di una donna che dietro la sua riservatezza ha molto da raccontare, in primis la responsabilità, il peso e l’onore di essere “la moglie di”.

Mercedes, immagino che lei sia abituata ad avere tanta attenzione addosso e chissà quante interviste avrà rilasciato…

«In realtà questa è la seconda in tutta la mia vita. La prima me la fece Il Piccolo nell’’82 (mi allunga l’articolo di giornale ritagliato, ndr) dal titolo “Me ne vado in soffitta e dipingo un’altra vita”. D’altronde quando iniziai a lavorare, non avevo neppure vent’anni, facevo l’inserviente presso l’allora Manicomio Basaglia di Gorizia dove durai poco: mio marito mi portò via con lui a Milano e io smisi totalmente di lavorare perché a lui non piaceva il lavoro che facevo».

Le è dispiaciuto lasciare il suo lavoro?

«No e poi mi eccitava l’idea di seguirlo e dedicarmi esclusivamente alla famiglia che entrambi desideravamo. Abbiamo presto avuto tre figli e io, a Milano senza i miei genitori ma aiutata dalle tate, certo non fremevo di tornare a lavorare».

Lei racconta questo passaggio sapendo dei successi conseguiti negli anni da suo marito. Ma all’inizio eravate due giovani di belle speranze e lei non poteva immaginare il futuro che vi aspettava. Milano poteva essere anche una débâcle e lei sarebbe rimasta sola con tre bambini piccoli in una grande città a fare i conti per pagare le bollette. Fu un salto nel buio il suo, una scommessa. Vinta, ma all’inizio non poteva saperlo…

«Sì, è vero, all’inizio la nostra vita di coppia comportava il far tornare i conti dei nostri bisogni col suo unico stipendio da impiegato ma è anche vero che quelli erano gli anni in cui era normale fare così e per una donna stare in casa, abnegarsi all’ombra del proprio marito, dedicarsi unicamente ai figli».

Non le ha mai dato fastidio essere riconosciuta solo come moglie dell’imprenditore Zollia?

«Mai, perché era la verità, rinunciando a me io sceglievo consapevolmente una nuova vita nei panni di moglie. Alle battutine e alle cattiverie poi non ho mai dato troppo peso, d’altronde già prima dei vent’anni ero diversa dalle mie amiche, più brillante, mi piaceva apparire, avere la spider cabriolet, non facevo nulla per passare inosservata. Era il mio istinto naturale, non una ricerca ostentata di attenzione».

Come si spiega che a Gorizia pochi sanno della vostra storia imprenditoriale?

«Credo perché non ostentiamo ricchezza e poi io non parlo mai del mio quotidiano, condivido il meno possibile, non ho amiche. Mi ritengo una persona molto riservata».

Suo marito l’ha dichiaratamente nominata la sua musa, ma oltre a ispirarlo idealmente, lei lo consigliava sul lavoro?

«No, lui non voleva intromissioni. Solo una volta mi ha anticipato quello che avrebbe fatto: una sera a cena mi disse che il giorno dopo si sarebbe licenziato».

Cioè, lei sola a Milano con tre figli e suo marito unica risorsa: si sarà arrabbiata o comunque avrà preteso spiegazioni?

«No, non mi opposi, dissi che mi affidavo a lui».

Il suo secondo salto nel buio.

«Sì e nemmeno il peggiore. Il più grande l’ho fatto anni dopo, quando lui – che nel frattempo aveva iniziato a fare il consulente vendendo fondi di investimento – una mattina uscì di casa per cercare di fidelizzare un imprenditore, un tale Brovedani con un’azienda di lavorazioni meccaniche che portava il suo stesso cognome. Quando Benito tornò a casa, gli chiesi se fosse riuscito a vendere qualcosa e lui mi rispose che no, non aveva venduto nulla ma in compenso si era comprato la ditta: la Brovedani».

E lei?

«Niente. Sorrisi, mi fidavo. Una fiducia che comunque ci costò per il debito cospicuo che contrasse e poi, da lì a poco, anche per sostenere l’acquisto di un’altra azienda, questa volta agricola. Mio marito era fatto così, lo sarebbe ancora se l’età non l’avesse cambiato».

La sua fiducia era sorretta dal fatto che economicamente stavate bene o era cieca e incosciente?

«Io ho sposato un uomo eclettico, dai continui guizzi, dagli alti e bassi, imprevedibile. Ne ero consapevole e ho assecondato la sua natura. Non ero preoccupata, nemmeno quando era un impiegato alle prime armi, sentivo che saremmo stati bene».

Mi sveli come si fa ad affidarsi ad una persona così totalmente senza aver paura di restare con un pugno di mosche.

«Il segreto si chiama amore».

(Mi commuovo e lascio che qualche minuto di silenzio sottolinei la risposta meravigliosa che mi ha appena dato, l’unica che sinora l’abbia intenerita in un racconto ripercorso con distacco e senza fronzoli).

Eppure mi ha detto che quando lo conobbe per lei l’amore non fu deflagrante come per lui…

«No, per niente. Benito parlava sempre, sempre. All’inizio io mal sopportavo, era strano, confusionario, vulcanico, però questo suo modo di essere differente dal solito fece breccia e in qualche maniera mi colpì. Un DNA che poi si è tramandato, seppur in maniera differente, nei nostri tre figli Alessandro, Valentina e Massimiliano».

E di lei cosa c’è?

«Ovviamente ci sono anch’io in tutti e tre, forse di più nel figlio minore, Massimiliano, anche lui amante dell’arte, della fotografia, della lettura, sicuramente dotato di una grande carica di sensibilità».

Parla dei figli e mi mostra il suo braccio pieno di brividi, perché?

«Perché ho vissuto con loro la difficoltà di relazionarsi con un padre così severo e spigoloso e la mia impotenza nel non riuscire a mediare: in tanti anni non si sono proprio capiti e solo ora, che oramai sono tutti e tre adulti e Benito, invecchiando, si è ammorbidito, si sono riavvicinati. Nonostante la sofferenza, i miei figli oggi sono capaci di un atto di cura verso il padre. Riconoscere e testimoniare questa risposta d’amore la ritengo la mia più grande fortuna».

In una vita dove si è sempre occupata degli altri, c’è stato un momento che ha dedicato esclusivamente a sé?

«Sì, durò dal 1978 al 2005: a Cordenons conobbi un gruppo di artisti e da lì iniziai a dipingere, a fare la ritrattista. Feci cinque mostre e trovavo meraviglioso esprimermi, coltivare quelle relazioni era adrenalinico. Mi firmavo con il mio nome Mercedes, perché era qualcosa di veramente mio, esclusivamente mio: una passione che con gli anni crebbe e mi regalava sempre più soddisfazioni. Peccato però che incomprensioni, fuori e dentro casa, mi portarono poi a rinunciarvi e ad archiviare questa mia parentesi in soffitta».

Se tornasse indietro rifarebbe la stessa scelta di darsi totalmente alla sua famiglia rinunciando così completamente a sé stessa?

«Avrei dovuto avere un uomo differente al mio fianco: io ero consapevole, mio marito l’ho sposato consapevole di come fosse. Le mie non sono state rinunce o sacrifici, sono state scelte. Non mi interessava lottare per continuare a dipingere, né per me stessa, l’unica lotta che ho sempre fatto, ieri in maniera silente e oggi necessitata, è solo per i miei figli. Altro non temo, oggi come ieri tutto mi scivola addosso, ma il benessere dei miei figli, che si sono ritrovati a tenere ben salda la barra del timone dell’impresa scossa dalle acque agitate dopo l’inevitabile ritiro del suo capitano, è l’unica mia priorità».

 

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