L’onesta voluttà

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Vanni Veronesi

28 Maggio 2014
Reading Time: 8 minutes

Storia della cucina in FVG

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Dal frico alla gubana, dal prosciutto di San Daniele al Montasio, iMagazine vi accompagna in un viaggio gastronomico alla scoperta di una storia che s’intreccia con quella di re, imperatori, papi. E scrittori come James Joyce, grande appassionato di pasticceria triestina…

Millenni di bontà

Cinghiale, pesce, cereali ed erbe selvatiche: una dieta varia e gustosa quella che seguivano i Celti della nostra regione. Ma il vero re della tavola era il maiale: un lascito ereditato dai Romani, come dimostra una splendida ara sepolcrale conservata a Portogruaro sulla quale, accanto agli strumenti del porcinarius, penzola una coscia di prosciutto con tanto di zampetto, identica a quello che, perlomeno dal Medioevo, il mondo ha imparato a conoscere come ‘San Daniele’.

Con la fondazione di Aquileia nel 181 a.C., i Romani costruiscono strade, operano bonifiche e deviano fiumi, ma soprattutto dividono il territorio in appezzamenti regolari (è la cosiddetta ‘centuriazione’), alcuni da lasciare agli autoctoni, altri di proprietà statale da destinare a bosco o pascolo, altri ancora da distribuire ai coloni; ancora oggi, in buona parte della regione, la disposizione di strade, campi e città riflette il reticolato romano, tuttora visibile dall’alto. Nei mosaici del IV sec. d.C. della basilica di Aquileia, invece, possiamo ammirare un campionario di animali raffigurati con una tale naturalezza che, al di là del loro valore simbolico in una fede cristiana ai suoi albori, sembrano pronti per un banchetto luculliano.

E sempre a proposito di Cristianesimo, in Carnia circola la leggenda che sia stato S. Ermacora in persona a insegnare agli abitanti la ricetta per produrre la scuète, la tipica ricotta locale: dietro il mito ‘nobilitante’, appare chiaro l’influsso della civiltà casearia portata in regione dalle invasioni dei barbari, da sempre maestri nella trasformazione del latte.

Usanze barbariche e tradizione romana si fondono grazie ai Longobardi, che lasciano nelle parlate della regione termini inequivocabili: è il caso di licof, diffuso dalla Carnia a Trieste per indicare il pasto benaugurante al termine della costruzione di una casa. Dai vicini popoli slavi, invece, il Friuli eredita la passione per i frutti di bosco, tanto che in friulano fragola è triscule, dallo sloveno troskalica; mirtillo cernicule, da cernica; prugna sèspe, da cespa; ciliegia vuìsine, da visnja. Ma è con i Franchi di Carlo Magno che l’agricoltura ritorna centrale; grazie alla creazione di una rete di proprietari terrieri legati da vincoli di fedeltà gerarchicamente ordinati, eppure autonomi nella gestione dei loro beni fondiari, essi danno l’avvio a quel sistema che, pur modificandosi profondamente nel corso dei secoli, traghetterà l’Europa del Sacro Romano Impero fino alle porte del Rinascimento: il Feudalesimo.

Tra cucina e letteratura

Maggio 1409. A Cividale fervono i preparativi: papa Gregorio XII, al secolo Angelo Correr, ha convocato in città un concilio per risolvere la crisi diplomatica che vede contrapposti Papato, Repubblica di Venezia e Patriarcato di Aquileia. Il concilio si rivelerà un fallimento e Gregorio XII, debole e poco amato, nel 1415 addirittura abdicherà a causa dei suoi insuccessi. Dell’esperienza cividalese il Correr ricorderà con letizia solo il banchetto, appuntandosi il nome di un dolce mai gustato prima: hubanza.

È la prima attestazione della gubana, il cui ripieno di noci, nocciole, mandorle e uvetta ammorbidita nella grappa assomiglia – senza essere identico – a quello di altri dolci che fanno la gloria della nostra regione: la putizza, che vi aggiunge anche rum, miele, cioccolato e scorza di arancia e limone, e il presnitz triestino, che alla pasta sostituisce la sfoglia, amatissimo da James Joyce. Ed è all’interno della pasticceria Pirona, tra un presnitz, un caffè (di cui Trieste, porto franco dal 1719, è patria d’elezione) e un passito, che Joyce troverà l’ispirazione per il romanzo simbolo del Novecento: l’Ulysses.

Il legame fra cucina e letteratura, però, è molto più antico. Nel 1456 Martino da Como, cuoco personale del Patriarca di Aquileia, scrive un libro di ricette in lingua volgare: il De arte coquinaria. Di questo monumento della gastronomia rimangono tre soli manoscritti, fra i quali uno conservato alla Biblioteca del Congresso di Washington, il cui sito web ci permette di visionare il manoscritto e di leggere, sul retro del foglio 43, la prima testimonianza del frico, chiamato caso in patellecte (formaggio in padella):

Piglia del caso grasso, et che non sia troppo vecchio né troppo salato, et tagliarai in fettolini o bocchoni quadri,o como ti piace; et habi de le padellette fatte a tale mistero; en sol fondo metterai un pocho di butiro, overo di strutto fresco, ponendole a scaldare sopra le brascie, et dentro gli mettirai li ditti pezzoli di caso; et como ti piace che sia facto tenero gli darai una volta, et mettendogli sopra del zuccharo et de la canella; et mandaralo subito in tavola, che si vol magnare dopo pasto et caldo caldo.

Oggi come allora, il formaggio migliore per questa ricetta è il Montasio, che la tradizione vuole prodotto già dal XIII secolo grazie alla sapienza dei monaci benedettini dell’abbazia di Moggio Udinese. Ma dalla ricetta di Martino scopriamo che, nel Quattrocento, il frico era arricchito con zucchero e cannella, secondo il tipico contrasto dolce-salato tuttora caratteristico di molta cucina regionale: si pensi ai cjarsons, i ravioloni della Carnia, o ai gnochi de susini diffusi dal Carso goriziano all’Istria.

Ma al di là del frico, scorrendo il De arte coquinaria si avverte una vastissima conoscenza della materia: oltre alle ricette lombarde di provenienza e friulane di adozione, il cuoco comasco dedica ampio spazio alla cucina toscana, laziale, campana, siciliana, nonché a quella straniera, catalana e araba in testa. Una conoscenza figlia dei continui viaggi al seguito del patriarca di Aquileia, Ludovico Scarampi Mezzarota, camerlengo del Papa e dunque molte volte di stanza a Roma. Qui Martino fa la conoscenza di Bartolomeo Sacchi (detto ‘il Platina’ dalla latinizzazione del suo paese d’origine: Piàdena, CR), che nel 1475 ha l’onore di diventare il primo prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana, fondata da papa Sisto IV.

Il Platina capisce subito la portata rivoluzionaria del ricettario di Martino, che rifiuta l’abuso di spezie pregiate tipico degli aristocratici medievali in favore di una cucina naturale, rispettosa della materia prima, quasi un nuovo corso ‘morale’ impresso all’alimentazione. Proprio per questo, Bartolomeo lo traduce in latino intitolandolo

De honesta voluptate et valetudine, ‘Sul piacere decoroso e sulla buona salute’, aggiungendovi molte considerazioni su temi legati al gusto. Il libro è un successo clamoroso: pubblicato con molti errori a Roma nel 1474, esattamente vent’anni dopo il primo testo a stampa (la nota Bibbia di Gutenberg), e riedito malamente a Venezia nel ’75, diventa famoso in tutta Europa grazie alla finalmente ottima edizione realizzata a Cividale nel 1480. Di fatto, è il primo libro a stampa nella storia del Friuli Venezia Giulia.

Pochi anni dopo, nel 1492, convinto di aver raggiunto le Indie visitate da Marco Polo, Cristoforo Colombo scopre invece quella che Amerigo Vespucci chiamerà, dandole il suo nome, ‘America’. È da lì che arriveranno il mais, la cui farina gialla sostituirà farro, segale e grano saraceno per la preparazione della polenta, e le patate, introdotte in Friuli appena nel 1766 da Antonio Zanon per combattere una terribile carestia, sulla scia di quanto già fatto da due secoli in Austria e Germania: non a caso, il carnico cartufulas rimanda al tedesco Kartoffeln. Mastro Martino non poteva saperlo, ma il suo frico sarebbe diventato ancora più buono…

Oltre duemila anni di vino

Nel 1888, dopo i casi di oidio (1850) e peronospora (1881), un’altra malattia della vite dilaga in regione: si chiama fillossera e arriva dall’America. La devastazione è immensa: duemila anni di enologia sembrano giunti al termine. Poi, uno scienziato francese ha l’intuizione: impiantare dei portainnesti con radici di vite californiana, da secoli resistente alla fillossera, sui quali innestare i vitigni desiderati. Così, alla fine dell’Ottocento le viti autoctone vengono marginalizzate, sostituite da nuove varietà straniere apparse già da qualche decennio: dall’America arrivano Bacò e Clinton, dalla Francia Sauvignon, Chardonnay, Pinot bianco, Pinot nero, Cabernet e Merlot, dall’Austria la Franconia, dalla Germania Riesling, Pinot grigio e Traminer.

Una scelta vincente, tanto che oggi pare impossibile pensare a un Friuli senza Merlot o senza Cabernet; eppure, sono altri i nomi che hanno fatto la gloria di questa terra prima della rivoluzione post-fillossera… e non solo ‘Tocai’, dal 2007 chiamato ‘Friulano’ per le note controversie con l’Ungheria.

Già Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis historia, aveva lodato il valore terapeutico del vino Pucinum prodotto «nel golfo del mare Adriatico, non lontano dalla fonte del Timavo, su un colle petroso, fermentato in poche anfore grazie al vento proveniente dal mare», ricordando che l’imperatrice Livia l’aveva bevuto tutti i giorni e proprio per questo aveva campato 86 anni. A cosa corrisponde il Pucinum è una questione dibattuta: per alcuni è l’antenato del Terrano, per altri della Vitovska, per altri ancora del Prosecco, che prende il nome dalla località presso Trieste nella quale è diffusa la Glera, uva che sta alla base del noto vino. Ma è soprattutto nel Medioevo che l’enologia del Friuli conosce uno sviluppo fortissimo.

Sappiamo che nel XII secolo i luogotenenti che entravano a Udine ricevevano in omaggio dalla cittadinanza degli otri di Pignolo, così chiamato per la compattezza dei suoi grappoli.

Nel 1382, quando Trieste passa all’Austria, il duca Leopoldo II stabilisce nell’atto di dedizione un invio annuale da Trieste a Vienna di «cento botti di vino Ribolla, della migliore qualità che si potrà avere in quell’anno». Ed è proprio la Ribolla, nelle sue varianti ‘verde’, ‘gialla’ e ‘nera’ (quest’ultima nota come Schioppettino), l’uva che per secoli ha dato i più grandi vini del Friuli. Un primato conteso con le molteplici varietà di Refosco: la più nota, quella dal peduncolo rosso, deve molto alle ricerche dello scienziato Luigi Chiozza (1828-1889), che nella sua villa di Scodovacca ne selezionò gli esemplari migliori. E che dire del Picolit, definito da Carlo Goldoni «la gemma enologica più splendente del Friuli»? Prediletto da re e imperatori, la sua fortuna si deve proprio a una malattia della vite, un aborto floreale che riduce i grappoli a pochi acini: quegli acini, però, diventano dolci come il miele.

Dolcezza che da secoli delizia anche gli amanti del Verduzzo, che a Ramandolo, frazione di Nimis, ha trovato il suo terreno migliore. Fra i vini rossi, tuttavia, c’è ancora molto da riscoprire, fi n dai nomi: Cjanorie deriva forse dal greco kýanos, ‘violaceo’; Corvino e Negrat si riferiscono al colore scuro; Cividino e Forgiarin richiamano le loro patrie d’origine, ossia Cividale e Forgaria; Fumat denuncia il sapore leggermente ‘affumicato’ dei vini che se ne ricavano; Tazzelenghe, ‘taglialingua’, esprime tutta la sua forza; Piculit Neri rimanda alla dimensione minuta degli acini. Ma anche fra i vitigni bianchi ci sono delle rarità da ripescare, come l’Ucelut, i cui acini sono appunto amati dagli uccelli, e lo Sciaglin, così detto dai terrazzamenti (s’ciale in friulano) nei quali veniva coltivato. E allora non resta che brindare – con moderazione – al futuro della nostra terra. Magari ripartendo da questo affascinante passato.

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