“Il Made in Italy? Non esiste più”

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redazione

13 Giugno 2014
Reading Time: 3 minutes

L’economista Fabio Sdogati a Udine

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Internazionalizzazione come strada obbligata per crescere. E per crescere anche dimensionalmente, aumentando il personale in Italia e acquisendo cioè la grandezza che permette di affrontare adeguatamente il mercato globale, quello su cui si affaccia oggi ogni nuova impresa che nasce. L’impulso arriva dal professor Fabio Sdogati ordinario di Economia internazionale al Politecnico di Milano, intervenuto stamattina al Friuli Future Forum assieme a Roberto Calugi, Coordinatore del Consorzio camerale per il credito e la finanza, e Gian Carlo Bertoni, presidente Assocorce (International Trade Development Association), per un incontro sull’internazionalizzazione ideato da Fff in sinergia con Confapi Fvg. 

La provocazione di Sdogati è stata forte. «Hanno passato anni a insegnarci che “piccolo è bello” ed è necessario che le imprese siano radicate sul territorio, ma si tratta di due assunti da rigettare». Motivo? «Il mondo non è più eurocentrico e lo sarà sempre di meno. Inoltre, la mappa dei Paesi è ormai sfumata sui confini. Cioè: il made in Italy non esiste. Tranne per pochissimi prodotti che non possono prescindere dal territorio, ormai nessun prodotto è fatto completamente in Italia, ma è frutto di una compartecipazione di lavoro internazionale».

Pertanto la strada è quella dell’estero, come export o investimenti, e verso i mercati che saranno più produttivi nei prossimi anni. Dunque non tanto e non solo l’Ue, ma mercati emergenti o con crescita stimata di gran lunga superiore alla nostra. Tre esempi, stando ai dati Ocse? Se gli Usa sono stimati in crescita del 3,5 % nel 2015, la Cina supera il 7%. Noi siamo attorno all’1%. «Possiamo perciò valutare – ha ricordato Sdogati – che se negli States gli stipendi attuali raddoppieranno in una trentina d’anni, in Cina il tempo si ridurrà a 12 anni. Da noi? Ci metteranno 90 anni a raddoppiare».

Il rischio è quello di una stagnazione permanente, se non sapremo aprirci all’internazionalizzazione, e continueremo a perdere giovani, forze lavoro e forze creative. «L’anno scorso – ha evidenziato il professore – abbiamo perso 100 mila giovani: il servizio sanitario inglese ha rilasciato 44 mila accessi a giovani italiani, tutti sotto i 35 anni».

«Si è diffusa troppa paura, in questi anni, sull’apertura all’estero delle imprese – gli ha fatto eco Calugi –. Si diceva che avrebbe causato una contrazione degli occupati in Italia. Invece i dati dicono che chi è andato all’estero, soprattutto esportando ma anche investendo, ha accresciuto il personale in Italia».

Richiamando elaborazioni di dati Istat, con riferimento al comparto industriale, le imprese esportartici evidenziano un grado di efficienza tecnica superiore rispetto alle imprese rivolte al solo mercato domestico. E sebbene stia lentamente diminuendo la quota di export italiano (e anche Fvg) verso l’Ue e di converso crescendo quella verso Paesi extra-Ue, Calugi ha citato un’analisi sui certificati d’origine richiesti dalle imprese milanesi a fronte di esportazioni verso i principali Paesi extra Ue. Sono stati considerati gli anni 2011 e 2012 per oltre 62.000 certificati richiesti da circa 3.250 imprese per ogni anno e i dati sono stati integrati con quelli provenienti dal registro delle imprese italiane. Solo l’1,1% delle imprese attive a Milano esporta in un Paese che richiede questi certificati. Solo 213 esportano per più del 30% del loro fatturato.

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