Un ritorno alla luce
Verona, anno 966. Sulla cattedra vescovile della città siede Raterio, uomo di fede e di lettere. In uno dei suoi discorsi confessa le proprie passioni: «Cosa dovrei dire, cosa dovrei pensare di me […], se medito giorno e notte sulla legge di Dio per sapere di non esserne in futuro debitore? E se invece leggo il Catullo mai letto prima, e ogni tanto il dimenticato Plauto? E quando, spesso interrogato sulla materia, espongo la musica sebbene non abbia cognizione dei primi rudimenti matematici?» (Sermo de Maria et Martha, IV 9-13). Poche righe che ci testimoniano come nel X secolo la letteratura classica avesse subito una netta selezione: pressoché scomparso il greco in Occidente, a essere copiati nei monasteri, oltre ai Padri della Chiesa, sono soprattutto Cicerone, grammatici, retori, e alcuni filosofi come Seneca. Plauto, grande commediografo del III-II sec. a.C., per Raterio è «dimenticato»; ma ciò che c’interessa è l’affermazione «mai letto prima» riguardo a Catullo, celebre poeta del I sec. a.C. E, cosa fondamentale, originario proprio di Verona, là dove Raterio vive e può leggere, evidentemente, un manoscritto con le poesie dell’illustre concittadino del passato: lui solo, forse, in tutta Europa.
Dopo Raterio, su Catullo e sul fantomatico manoscritto veronese scende nuovamente l’oblio. Ma all’inizio del Trecento accade qualcosa; tal Benvenuto Campesani, vicentino, scrive un epigramma latino intitolato Sulla resurrezione di Catullo poeta veronese. Il contenuto è chiaro: un certo Francesco ha riportato in Italia un antico manoscritto di Catullo. Forse – ma è solo una suggestione – lo stesso che quasi quattro secoli prima leggeva Raterio e che lo stesso si era portato in Francia una volta chiuso l’apostolato veronese. Anche di questo codice, però, si perdono le tracce: tuttavia, da lui discendono sicuramente le prime copie giunte fino ai giorni nostri. Ed è con lui che l’Occidente si riappropria di una figura fondamentale della poesia latina. L’opera di Catullo, nel I sec. a.C., era infatti stata qualcosa di dirompente: per la prima volta, il pubblico dei lettori si era trovato di fronte a un libro di poesie concepito come una raccolta moderna, strutturata con ordine logico e coerenza interna. Fin dalla prima poesia, rivolta allo storico Cornelio Nepote, dove troviamo l’immagine della confezione ‘fisica’ del volume, appena uscito dalla bottega del rilegatore:
A chi dono questo nuovo, grazioso libretto
appena levigato dall’arida pomice?
A te, Cornelio! Tu, infatti, eri solito
pensare che valessero qualcosa le mie bagatelle;
già quando, solo fra gli Itali, hai osato
spiegare la storia universale in tre libri
dotti e – per Giove! – densi di fatica.
Perciò prendi per te questo libretto,
qualunque cosa sia, qualunque cosa valga:
che possa vivere nel tempo, o vergine protettrice, più di un secolo
L’autore editore di se stesso: una novità assoluta nel mondo romano. E nel mondo greco?
Un’invenzione rivoluzionaria
Con un salto all’indietro arriviamo ad Alessandria d’Egitto, nel 295 a.C. Alessandro Magno, fondatore della città, è morto da ventotto anni e il suo sterminato impero si sta disgregando in vari regni autonomi perennemente in conflitto. Ma se l'impero si sfalda, la cultura ellenica si diffonde in tutti i territori conquistati, dalla Macedonia alla valle dell’Indo: ed è così che il greco diventa la lingua della cultura di buona parte del mondo conosciuto all'epoca, con inevitabili influssi anche sulla civiltà romana che, negli stessi anni, sta conquistando la penisola italiana.
In Egitto sta regnando Tolomeo I, capostipite di una dinastia che arriverà fino a Cleopatra. Grande amante della cultura, ha un’idea: raccogliere tutto il sapere dei Greci in un unico luogo. Per questa impresa, mai tentata prima, chiama a corte un allievo della scuola filosofica fondata decenni prima da Aristotele: Demetrio di Falereo. Di lì a pochi anni nasce la più grande Biblioteca della storia, a cui presto si affianca un collegio scientifico e letterario: il Museo, la ‘casa delle Muse’. Alla fine del III secolo a.C., alcune fonti ci parlano di 200.000 volumi raccolti in loco, altre addirittura di 490.000.
A caratterizzare l’attività dei bibliotecari è, soprattutto, il loro essere filologi. L’etimologia del termine ne svela la verità: filologo è, prima di tutto, chi ama il logos, la parola. E, per esteso, chi trasforma questo amore in un mestiere, occupandosi di ricostruire la versione originale (o almeno quanto di più vicino possibile) dei testi scritti da autori precedenti: operazione necessaria per un’epoca in cui l’unico modo di confezionare un libro era la copia manuale, con l’inevitabile corredo di errori.
Due poeti legati a distanza
Fra i filologi di Alessandria c’è anche il poeta Callimaco, nato nella libica Cirene poco prima del 300 a.C. Per uno come lui, la poesia è diretta conseguenza del mestiere di studioso. E da questo osservatorio privilegiato arriva al risultato più alto: assorbire l’intera letteratura greca del passato e restituire al pubblico colto qualcosa di completamente nuovo. Dalla frequentazione con le poesie dei lirici arcaici riprende generi letterari e forme ritmiche, ma li rielabora con originalità: è il caso degli Aitia, letteralmente ‘le cause’, vasta raccolta - purtroppo quasi interamente perduta - di elegie dedicate alla ricostruzione dell’origine di culti, usanze, nomi e altre curiosità. Nel IV libro, in particolare, trovava posto una poesia destinata a entrare nel mito, nata per un’occasione speciale.
Nel 246 a.C., Tolomeo III entra in guerra contro il regno di Siria: Berenice, sua sposa da pochi mesi, offre allora in voto nel tempio di Afrodite una ciocca di capelli della propria chioma, pregando la dea di riportarle il marito sano e salvo. Un anno dopo, Tolomeo torna in patria vittorioso: è giunto il momento di sciogliere il voto. Berenice, dunque, si recide una treccia e la deposita nel tempio, ma il giorno successivo non ve n’è più traccia: brutto segno per il re. Ecco allora che l’astronomo di corte, Conone, ha una trovata geniale: indagando il cielo, scorge un reticolo di stelle ancora non classificato, per quanto già noto da millenni e via via definito secondo forme diverse (fuso, triangolo, foglia d’edera). La treccia, dunque, è lassù… Risolto l’arcano, a Callimaco spetta l’onore di sublimare questa vicenda in una poesia: ed è così che nasce la Chioma di Berenice. Che proprio Catullo, ideale discepolo del filologo alessandrino, da cui riprende la stessa concezione ‘editoriale’ del libro di poesia, tradurrà in latino con 94 versi di raffinatezza straordinaria. Come questi (89-94), dove a parlare è la stessa treccia recisa finita in cielo, desiderosa di tornare fra i capelli della principessa:
E tu regina, quando, abbracciando con lo sguardo
le stelle, placherai Venere nei giorni a lei consacrati,
non lasciare me, che sono tua, priva del sangue sacrificale,
ma sii prodiga di ricchi doni, affinché io
(perché raddoppiano le stelle?) ritorni chioma regale:
e sia Orione a splendere vicino all’Acquario!
Ed è proprio questa la versione che, dopo la riscoperta catulliana di Benvenuto Campesani nel Trecento, sarà nota al pubblico colto per oltre cinque secoli, a sua volta rielaborata da generazioni di letterati. Una fortuna che alimenterà il mito dell’originale greco scomparso: la caccia al testo di Callimaco era iniziata.
Dal buio delle sabbie
Il Cairo, anno 1929. Una studiosa triestina, Medea Norsa, si aggira fra le botteghe antiquarie di Sharia El-Madabegh. Di famiglia ebrea, ha studiato latino e greco, materie assenti nel liceo femminile, per accedere alla Facoltà di Lettere all’Università di Vienna; passata quindi a Firenze, si laurea nel 1906 per poi specializzarsi in paleografia, sempre a pieni voti con lode. È in missione per conto del Reale Istituto di Studi Superiori di Firenze e del suo maestro Girolamo Vitelli, fondatore in Italia della papirologia. L’obiettivo è quello di reperire il maggior numero possibile di papiri letterari, sopravvissuti per millenni grazie all’aridità delle sabbie desertiche: un compito perfetto per la tostissima Norsa. Che di fronte all’astuto mercante Maurice Nahman s’impone con la sua autorevolezza: davanti a lei, l’antiquario sfodera dei brandelli papiracei da poco emersi in qualche scavo. La scrittura è continua, come sempre: nessuno spazio fra le varie parole. Ma l’occhio della triestina è clinico e la distinzione dei termini rivela l’impensabile: quei versi, che ricalcano ‘al contrario’ Catullo, appartengono alla Chioma di Berenice di Callimaco. Dopo duemiladuecento anni, l’umanità ritrova così, con i suoi colti riferimenti mitologici, la voce del filologo di Alessandria, sebbene mutilata in un frammento poverissimo che copre solo i vv. 44 – 64:
…la progenie di Tia varca lucente,
grande obelisco della tua madre Arsione, e le navi
dei Medi, cariche di lutti, passarono in mezzo all’Atos.
Che faremo noi trecce, se tali monti
si arrendono alle armi di ferro? Cada in rovina la genia dei Càlibi,
che primi le portarono alla luce - malapianta
germogliante dalla terra! - e insegnarono il lavoro dei metalli!
Una volta recisa, le sorelline trecce mi piangevano,
e già veniva il consanguineo dell’etiope Mèmnone
ruotando le ali variopinte; lui, aurea femminea,
destriero locrese di Arsinoe cinta di viole,
mi spinse con un soffio e sollevandomi nell’umido cielo
mi pose subito nel casto grembo della dea di Cipro.
Lò inviò per questo Zefirite
…che abita presso la riva di Canopo,
affinché sui mortali non soltanto
la corona d’oro della sposa cretese (brillasse)
onorabile fra le molte luci, ma risplendessi
anch’io, bella chioma di Berenice.
Mentre bagnata dalle acque salivo agli dei immortali,
Cipride mise me, costellazione nuova, fra quelle antiche…
Pochi anni dopo, una spedizione inglese recupera altri frammenti riferibili al testo di Callimaco: la Chioma di Berenice acquista così ulteriori trenta versi, sparsi qua e là. La speranza è che il sentiero tracciato da Medea Norsa porti a nuove scoperte: di certo, molti tesori giacciono ancora sotto le sabbie del deserto egiziano.
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