Bello, caparbio, votato alla sperimentazione, coltissimo, dolce, ironico, orgoglioso delle proprie scelte, fiero nelle difficoltà… Ha nutrito la sua passione fin da giovanissimo, con convinzione e dedizione, senza mai demordere, convinto di poter raggiungere la meta. A 15 anni era già allievo di Susan Batson (membro a vita dell’Actor Studio) mentre frequentava il Liceo classico Stellini; si laureava poi in Lettere a Padova e contestualmente studiava recitazione a Parigi, a Roma, alla Civica Scuola d’Arte drammatica ‘Paolo Grassi’ a Milano, poi anche a Vienna, a Berlino, per approdare in seguito pure a Budapest, sospinto dall’arte e dall’amore.
È uno dei pochissimi attori, formatori e registi di caratura internazionale, nonostante la sua giovane età, della nostra regione: Paolo Antonio Simioni, un artista davvero poliedrico.
Quando e come è nata la sua vocazione a recitare?
«Avevo sei anni quando ho cominciato a conoscere personalmente Milva o a vedere Albertazzi in teatro, grazie al fatto che mia madre lavorava per alcune trasmissioni televisive. All’epoca presentai anche un programma per bambini. Sono stato introdotto presto nell’ambiente. Ma ho sviluppato la mia sensibilità creativa successivamente, leggendo il Tao te Ching e ascoltando Disintegration dei Cure. Lì è nata l’esigenza di una vita da artista, la modalità dell’attore era semplicemente la più immediata».
Agli inizi i suoi genitori erano perplessi…
«Mia madre in gioventù lavorava per la televisione, quindi probabilmente è in parte responsabile del danno; mio padre mi avrebbe dato volentieri in eredità il suo studio di avvocato, ma ha sempre avuto un atteggiamento molto liberale rispetto alle mie scelte».
Quali sacrifici ha affrontato e quali ostacoli ha superato per raggiungere il successo?
«Non posso dire di aver patito la fame. I borghesi ben posizionati come me, se vogliono vivere una vita di passioni, devono fare in modo di procurarsi gli ostacoli da soli ed è quello che ho fatto io in questi 15 anni, scegliendo di mantenere sempre un atteggiamento di intransigenza sulla qualità del lavoro e sul rispetto che l’artista merita. Quando combatti su questi fronti, vi assicuro che la battaglia è garantita».
Come ricorda il suo debutto?
«Nel lavoro dell’attore, non distinguo tra laboratori, prove e spettacoli. La presenza di un pubblico pagante non cambia l’essenza dell’arte. Quindi io sento come vero debutto il mio primo seminario con Susan Batson. Avevo 15 anni e davanti un pubblico di attori tedeschi, francesi, inglesi… minimo dieci anni più vecchi di me. Ricordo il gesto potente con cui deposi una corona sulla mia testa immaginando uno specchio. Lei ne rimase folgorata».
È attore di teatro e regista: quale dei due ruoli la affascina maggiormente?
«Alla ‘Paolo Grassi’ pensavo di iscrivermi come regista, poi ho scelto il corso da attore per continuare la ricerca anche in quella direzione, ma, dopo le faticose lezioni dell’accademia, mi fermavo con alcuni compagni per sperimentare, guidandoli. In ogni caso il ruolo che amo di più non è né quello dell’attore, né quello del regista, ma quello del preparatore (del coach) ed è anche quello per cui sono più noto».
Intanto però nelle sue scelte di attore e di regista vi è molto spazio per uno scavo nei sentimenti umani e nella spiritualità. Come mai?
«A 11 anni ho letto il Tao te Ching di Lao Tze. Non me ne sono più liberato».
È credente?
«Se si ha la forza di mettere in discussione ogni giorno le proprie certezze, è difficile non arrivare ad esserlo. Impossibile credere senza dubitare e viceversa».
Lei è docente di giovani attori: quali sono i cardini di un attore sulla scena?
«Voce e gesto sono estrema conseguenza a cui l’attore non dovrebbe neanche pensare troppo. Il cardine è tra il cuore e il bacino».
Ai giovani che si avvicinano agli studi con l’aspirazione di diventare attori di teatro quali consigli fornisce?
«Il vecchio modo di essere attori è finito. Se aspettate di entrare in un’accademia, essere cresciuti e coccolati e poi inseriti nel lavoro, vi sbagliate. Un attore oggi è un impresario di se stesso: deve pensarsi nel modo più aperto possibile, quindi non solo come attore; deve saper guardare a tutti gli ambienti possibili, non solo quelli che gli piacciono o che ritiene nobili, ed essere pronto a combattere per la propria dignità con un sacco di politici, consiglieri, imprenditori spesso narcisisti e ignoranti come capre. Se non sei disposto ad intendere il lavoro così, meglio che stai a casa».
La televisione propone ripetutamente trasmissioni per scoprire e lanciare giovani nel mondo dello spettacolo. È un modo per creare false illusioni?
«Non mi sembra che la tv prometta carriere a tutti i ragazzi che partecipano al gioco. È esplicito che lì si consuma un agone in cui ne sopravviverà uno all’anno. Ho l’impressione che i giovani siano più cinici e tosti di come li si dipinga. Non mi sembrano vittime. Vanno lì sapendo che andranno incontro a una gioia effimera e vogliono godersela. Così come possono scegliere un atto sessuale esteticamente soddisfacente, senza pensare al futuro di un rapporto di coppia».
Vive molto a Roma, va all’estero, ma è presente anche in Friuli, dove vivono i suoi genitori. Della sua città, Udine, cosa porta nel cuore?
«Gli anni dello Stellini, una giostra di divertimento e ironia, e il mio lavoro con Leonardo Kopacin Gementi, con cui ho prodotto qui numerose opere a cavallo tra il teatro e l’arte contemporanea».
‘Nemo propheta in patria’. Questa citazione vale anche per lei fino ad oggi in Friuli?
«Con tutto il rispetto per la nostra regione, se qualcuno desiderasse farvi il profeta, credo sarebbe messo malino. A parte gli scherzi, io sono molto grato al Friuli. Anche dopo la mia formazione, dopo la mia partenza, non sono stato dimenticato. Soprattutto grazie ad artisti come Marco Maria Tosolini, ho fatto qui molte regie, ho diretto una rassegna internazionale. È vero che, essendo originario di questa terra, quando hai a che fare con le istituzioni, sembra che queste non abbiano coscienza di chi sei professionalmente. Il semplice fatto di essere friulano ti depotenzia. Noto che anche celebrando personalità di chiara fama come Giuseppe Battiston, c’è sempre la tendenza a farle diventare testimonial del “pan e formadi”. È un peccato che questa regione non creda in se stessa».
Cosa intende?
«Faccio un esempio. Lo scorso anno abbiamo avuto un grande successo proprio al Mittelfest con lo spettacolo Eddie Rosner. Nell’arco di un anno non è stato fatto nulla perché fosse esportato nel resto d’Italia. Un autentico complesso degli operatori del territorio. Si pensano in un porto franco e vedono il Tagliamento come un muro. Acquistano tutto e non vendono niente, polverizzando risorse. Questo è uno dei motivi per cui mi sono rifiutato di aprire il Festival quest’anno».
Il suo è un teatro di alto profilo europeo, che denuncia una vocazione cosmopolita.
«È una droga pericolosa… Comincio a fare fatica a lavorare con attori italiani».
Allora parliamo del pubblico: quali le differenze a teatro tra l’Italia e l’Europa?
«Ci sono differenze abissali. In Italia gli uomini di teatro hanno sempre voluto creare uno stato di conflitto tra il teatro e le forme d’arte commerciale o di massa, come la televisione e il cinema, mettendo quindi il pubblico di fronte a un aut-aut. Il pubblico ha scelto e ha fatto ciao al teatro. Questo a Budapest e Berlino non esiste. Giovani punk riempiono i concerti dedicati a Hildegard von Bingen e attori eccellenti passano da programmi tv a opere importanti, senza complessi. In questo modo il pubblico è capace di alleggerirsi, ma anche di mantenere una forte capacità critica. Il problema fondamentale, in Italia, è proprio questo: il pubblico non è più minimamente in grado di giudicare la qualità di un prodotto».
Come trascorre il suo tempo libero?
«Tifando Inter. Mi pare sia il mio unico hobby. Naturalmente simpatizzo anche per l’Udinese. Se non lo dico, mio padre non mi ospita più. Giustamente, dopo avermi offerto il privilegio di vedere Zico allo stadio…».
Sogni e ambizioni: cosa chiede ancora al futuro?
«Il sogno più immediato, dato che sono entrato nella seconda fase della mia vita, è di scoprire il senso della leggerezza. Per come la intendeva Nietzsche. Per il resto, ho cambiato la mia vita già tre volte. Spero di riuscirci almeno altre sei».
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