Le onde dell’Oceano che s’increspano contro la spiaggia di Bundaberg sembrano avere lo stesso ritmo di quelle che, cinquant’anni fa, bagnavano la banchina del porto di Freemantle. Come se a dividere le due città (la prima sulla costa orientale, la seconda su quella occidentale) non ci fosse un Paese sterminato e un’epoca che l’attuale crisi economica potrebbe far tornare attuale. Quella in cui le navi cariche di immigrati provenienti dal Vecchio Continente attraccavano senza soluzione di continuità nel centro dell’Oceania.
Tra quegli immigrati c’era anche la famiglia Zaina, originaria di San Giorgio di Nogaro. Il primo ad arrivare fu Tarcisio, nel 1952. Subito dopo fu la volta del fratello Ennio e, poco più tardi, di sua moglie Lidia. A differenza di Tarcisio, che dopo 17 anni decise di ritornare in Friuli, Ennio e Lidia hanno trovato nell’Australia il luogo ideale dove far prosperare la loro attività e, soprattutto, la loro famiglia.
«A San Giorgio – racconta Lidia, mentre il marito l’ascolta in silenzio – vivevamo in una famiglia numerosa e nella campagna non c’era lavoro per tutti. All’età di 25 anni, Tarcisio raggiunse l’Australia dove per i primi due anni lavorò grazie all’interessamento del governo, per poi dedicarsi a lavori stagionali in diversi luoghi del Paese. In questo modo riuscì a inviare molti soldi alla famiglia, in Italia. Ecco perché, all’età di 19 anni, anche Ennio decise di partire».
E lei?
«In realtà decisi di raggiungerlo dopo poco tempo…».
Cos’ha provato il giorno della partenza?
«Era il 1957 e c’era grande entusiasmo, nonostante le poche informazioni che avevamo su quella terra scoperta appena 150 anni prima. Percepivamo la speranza di avere nuove opportunità per racimolare denaro con cui ritornare in Italia».
Cosa ricorda di quel viaggio?
«Il viaggio fu molto lungo: partimmo da Napoli, passando per il Canale di Suez, allora appena riaperto dopo la crisi scoppiata per il controllo militare. Un mese più tardi sbarcammo a Freemantle, vicino a Perth, il primo porto dell’Australia dove si arrivava dopo dieci giorni di navigazione dall’ultimo scalo nello Sri Lanka».
Se le chiedessi di ricordare lo sbarco, qual è la prima immagine che le torna alla mente?
«La prima cosa che ricordo di quel giorno è la mela che avevo in mano e che le autorità australiane mi gettarono via, perché non era permesso portare all’interno del Paese generi alimentari esteri. La prima cosa che mangiai fu così un panino con spaghetti dolci, del genere che si trovavano in scatola: un cibo totalmente diverso da quello a cui eravamo abituati».
Un impatto tutt’altro che soft con la nuova realtà…
«In realtà gli australiani vedevano di buon occhio i nuovi immigrati, perché con il nostro lavoro contribuivamo al boom economico che stava prendendo avvio. Ma l’integrazione non fu semplice».
Quali difficoltà trovaste?
«Innanzitutto non conoscevamo la lingua: anche per cose banali, come comprare gli alimenti, bisognava parlare e interagire in inglese. E così per evitare problemi, pur non capendo quanto ci veniva detto, annuivamo sempre. In questo modo accettammo il nostro primo lavoro come tagliatori di canna da zucchero senza sapere a quanto ammontasse la retribuzione».
Un mestiere molto faticoso…
«All’epoca per tanti immigrati italiani era la norma. Oltre che faticoso il lavoro era anche pericoloso perché ci si poteva imbattere in serpenti tra i più velenosi del mondo».
In seguito a quella prima occupazione, la storia come proseguì?
«Dopo diversi lavori da dipendenti, avendo messo da parte un po’ di denaro decidemmo di acquistare una “farm”, un’azienda di tabacco di 12 ettari, non lontano da dove abitiamo ora, nel Queensland. Fu un successo, e così decidemmo di espanderla e di coltivare pomodori, togliendo le piantagioni di tabacco. Successivamente aggiungemmo anche le colture di peperoni, melanzane, zucchine e altre verdure».
Un successo inarrestabile…
«Gli affari continuarono a prosperare e così, nel 1982, vendemmo l’azienda per acquistare i terreni e le strutture di oggi, coltivando sempre le stesse colture, ma su grande scala».
Ora la vostra azienda (la Snapfresh Australia Pty Ltd) produce quasi 26.000 quintali di pomodori all’anno e 60.000 kg di piselli alla settimana, ritagliandosi un ruolo di primo piano nel mercato internazionale. In Italia questo exploit sarebbe stato possibile?
«Non lo so, perché parliamo di due realtà molto diverse. L’unica cosa certa è che quando sbarcammo in Australia il territorio era tutto da scoprire e se avevi voglia di lavorare e buone idee riuscivi a costruirti un futuro».
A proposito di futuro, quello dell’azienda è assicurato dai vostri figli…
«Eddy, Morris e Dennis, assieme a Sue, la moglie di Eddy, sono quelli che in prima persona gestiscono la Snapfresh».
Come sono i vostri rapporti con la Madrepatria?
«Siamo sempre in contatto con i nostri familiari; abbiamo lasciato fratelli, sorelle e nipoti in Friuli e una parte di noi sarà sempre lì con loro. I nostri fi gli sono venuti in Italia e parlano sia Friulano che Italiano, essendo le lingue con cui ci esprimevamo in casa. Anche molte delle nostre abitudini rimangono italiane».
Vi sentite più italiani o più australiani?
«Ci sentiamo australiani come persone, ma il nostro sangue è italiano».
Una cosa dell’Australia a cui non rinuncereste e una dell’Italia che vi manca...
«Dell’Australia non rinunceremmo alla nostra famiglia e a quello che abbiamo costruito qui, dell’Italia sicuramente ci mancano i nostri luoghi d’origine».
A proposito di Australia: dal giorno del vostro sbarco ad oggi com’è cambiato il Paese?
«L’Australia è cambiata parecchio: siamo arrivati che era ancora un Paese rurale, fatto di agricoltura e allevamento. Ora, nonostante le bellezze naturali siano rimaste intatte, si sono sviluppate e ingrandite numerose città. È un luogo molto più turistico e l’influsso di tanti emigranti di diverse nazioni ha permesso all’Australia di crescere ed evolversi».
Un italiano che nel 2012 vuole emigrare in Australia troverebbe le vostre stesse opportunità?
«Penso che l’Australia sia ancora una nazione che possa offrire lavoro e opportunità di vita migliore. Oggi poi è molto più facile venire qui perché tutti conoscono l’inglese e sono più informati su cosa li aspetta».
L’ultima volta che siete tornati in Italia quand’è stato?
«Diffi cile da dimenticare: era il 2001, con nostro figlio Eddy e la sua famiglia. Eravamo molto contenti di vedere com’era cambiato il Friuli e i nostri familiari. Purtroppo era il periodo dell’11 settembre: affrontare un viaggio così lungo in aereo, sapendo che i nostri fi gli erano a casa, ci mise molta ansia».
Per chiudere, un saluto dall’Australia ai friulani che vi leggono…
«Mandi furlans, bevet una tasa di vin ancja par no!».
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