L’infinita ombra del vero

imagazine vanni veronesi

Vanni Veronesi

3 Aprile 2015
Reading Time: 7 minutes

Pietro Savorgnan di Brazzà

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Nell’aprile 1905 il conte friulano Pietro Savorgnan di Brazzà, naturalizzato francese, riceve una richiesta da Parigi: stilare un rapporto rassicurante sulla colonizzazione del Congo. In settembre la relazione è pronta, ma qualcuno la insabbia e Brazzà muore improvvisamente a Dakar. Poi, nel 2014, il colpo di scena: una casa editrice pubblica il rapporto, a lungo ritenuto scomparso, ma il quadro che ne emerge è lontanissimo dalla propaganda. E getta ombre inquietanti su una morte ancora da chiarire.

Un uomo, molte patrie

Era già scritto nel blasone di famiglia, in quelle proboscidi di elefante sopra lo stemma, portate dall’Africa in Friuli chissà quando e da quale avo: Pietro Savorgnan di Brazzà, nato a Roma il 25 gennaio 1852 nel palazzo di via dell’Umiltà 82, doveva diventare un esploratore. Suo padre Ascanio, erede di uno dei più nobili casati friulani, era approdato nella città eterna per non obbedire all’Austria, diventata la nuova padrona del Friuli dopo il 1797. Nell’Urbe aveva frequentato lo studio di Antonio Canova, diventando egli stesso scultore e in seguito Conservatore dei Musei Capitolini, dividendosi fra la residenza romana e quella di Castel Gandolfo.

Pietro arriva dopo sei figli, a confermare l’amore di Ascanio per la moglie Giacinta Simonetti, e altri ne seguiranno, ma questo settimo erede appare subito il più intraprendente. Come quando, nell’avito castello di Brazzacco Superiore, si imbatte in una mappa dell’Africa che segnerà per sempre il suo immaginario; al centro, una macchia bianca con la scritta in francese «Regno del Makoko. Regione inesplorata dagli Europei» e a fianco un corsivo dell’avo Ludovico Savorgnan: «Luogo che seria interessante visitar».

È un’indole sognatrice quella di Pietro, e il suo precettore Angelo Secchi lo sa. Così, nel 1865 lo presenta all’ammiraglio Montaignac, capo della flotta francese di stanza a Civitavecchia. Montaignac non perde tempo: Pietro dev’essere trasferito al collegio Sainte Geneviève di Parigi, per poi frequentare la Scuola navale di Brest. Ascanio e Giacinta acconsentono; a tredici anni, il loro figlio parte per la Francia. Nel 1870 termina l’accademia, presenta le carte per la sua naturalizzazione francese e alla fine dell’anno è inviato nella colonia di Algeria per farsi le ossa nella repressione di una rivolta, ma il bagno di sangue lo sconvolge e il suo pensiero è sempre rivolto a quella macchia bianca sulla mappa. Perciò, quando gli si profila l’occasione per una missione di polizia lungo le coste del Gabon, dove la tratta degli schiavi continua nonostante l’abolizione ufficiale, Pietro la coglie al volo.

Nel cuore dell’Africa nera

Nel 1874, dopo mesi trascorsi a Lambaréné, alcuni giorni di permesso gli consentono di arrivare alla foce dell’Ogooué e di sottoporre al suo vecchio mentore Montaignac un piano per risalire il fiume fino alla sorgente, là dove nessun bianco ha mai messo piede. Tornato a Parigi, fatica a ottenere il consenso del governo, ma a ventitré anni è finalmente in Africa equatoriale, assieme a vari scienziati e centotredici fra marinai e aiutanti africani. Superata Lopè, dove il sovrano Rénoké dà il via libera al passaggio di Brazzà, la risalita dell’Ogooué si fa difficile: le mangrovie ostacolano il flusso delle barche, la stanchezza fiacca gli animi, l’afa e le malattie distruggono il fisico. Soprattutto, alcune tribù dell’interno non hanno mai visto l’uomo bianco: una notte il gruppo subisce un attacco e per salvarsi è costretto a gettare in acqua quasi l’intero carico. Tuttavia Pietro non si arrende, libera gli schiavi che incontra al suo passaggio e al suo ritorno in Francia, nel 1877, è salutato come un eroe.

Negli stessi anni un altro esploratore avanza in Africa: il gallese Henry Morton Stanley, già noto dal 1871 per aver ritrovato, vicino al lago Tanganyika, il naturalista David Livingstone, scomparso da anni. Niente lo accomuna a Brazzà: mentre Pietro usa i fuochi pirotecnici e spara in alto per ottenere rispetto come ‘stregone bianco’, Stanley si fa largo tra savane e foreste a suon di dinamite, sparatorie e incendi di interi villaggi, spinto dal denaro di Leopoldo II, re del Belgio. Questi, nell’agosto 1879, convoca a palazzo anche Pietro, prospettandogli una luminosa carriera sotto il suo vessillo, ma di fronte a un netto rifiuto capisce di essersi esposto troppo. Brazzà, ora, ha un argomento pesante: bisogna arrivare in Congo prima di Stanley, per non ridurre l’Africa centrale a proprietà privata di Leopoldo. E i permessi, stavolta, giungono a tempo di record.

Ascesa e caduta

La seconda spedizione lungo l’Ogooué parte nel 1881 ed è accompagnata dal fratello Giacomo, dall’amico friulano Attilio Pecile, entrambi valenti naturalisti, e da 139 marinai senegalesi, guidati dal sergente Malamine Kemara. Il gruppo ha quattro mesi di ritardo rispetto alle tappe dell’avversario, ma stavolta tutto va come deve: in soli due mesi Pietro percorre lo stesso tragitto che gli era costato due anni, grazie a un accordo stipulato proprio con quel regno del Makoko che la mappa di Ludovico Savorgnan indicava in bianco. Lasciato Malamine a guardia di M’foa, prosegue alla volta del principe Nganchouno, al quale si uniscono quaranta capi tribù: sepolte le armi di guerra, sopra il tumulo Pietro pianta un albero come segno di pace eterna. Il liberatore Brazzà è ormai una leggenda e Leopoldo non può tollerarlo: nel luglio 1881 spedisce Stanley a M’foa per imporre di ammainare la bandiera francese, ma l’altolà di Malamine lo costringe a tornare indietro.

Il 17 aprile 1882 Pietro arriva finalmente alle sorgenti dell’Ogooué, ma non c’è tempo da perdere; tornato a Parigi, dove incontra un bilioso Stanley congedandolo con grande classe, il 30 novembre riesce a far approvare al Parlamento la ratifica dei trattati: il Congo diventa protettorato francese. Leopoldo è inferocito e il Vecchio Continente corre ai ripari: il 15 novembre 1884, a Berlino, Bismarck apre la Conferenza internazionale sull’Africa. Dopo mesi di lavori si stabilisce che il Congo sarà diviso in francese e belga, ma tutte le altre questioni rimangono irrisolte: libere da vincoli, le nazioni europee hanno un alibi per i loro imperialismi. La corsa al continente nero, però, si rivela lontanissima dai modi e dalle azioni di Brazzà, sempre più isolato nella città che prenderà il suo nome: Brazzaville. In pochi anni la Francia allarga il suo dominio dalla Mauritania al Ciad, dal Marocco alla Costa d’Avorio, dall’Algeria al Darfour, ma Pietro, pur nominato Commissario Generale, rimane ai margini e i suoi progetti di sviluppo non interessano ai Governatori.

Finché, nel settembre 1898, la risalita inglese «dal Capo al Cairo» incontra a Fashoda, in Sudan, l’espansionismo francese diretto a Est; per settimane i due eserciti si puntano le armi a vicenda, ma alla fine i francesi si ritirano. Gli avversari di Pietro colgono la palla al balzo e lo accusano di incapacità: rimosso dalla carica, si ritira disgustato ad Algeri, deciso a rifarsi una vita sposando Thérèse.

Ma quattro anni dopo la sorte lo vuole di nuovo in prima fila.

L’ultimo viaggio

Il 14 luglio 1903 due funzionari francesi decidono di festeggiare a modo loro la presa della Bastiglia, facendo esplodere un congolese con la dinamite. L’episodio viene denunciato dalla stampa e il governo deve correre ai ripari: bisogna dimostrare che si tratta di un gesto isolato di due criminali, in un contesto di assoluta civiltà. Per rendere credibili le indagini occorre una figura autorevole agli occhi dell’opinione pubblica: Parigi, dunque, richiama Brazzà. Eppure, la richiesta gli arriva con una lettera «strettamente confidenziale» in cui il Ministro delle Colonie Clémentel pone condizioni precise: la relazione, «in un costante confronto con il Congo belga», dovrà dimostrare che il protettorato francese è un’istituzione libera, rispettosa dei diritti umani, dove le violenze non sono riconducibili al sistema. La sconcertante missiva si conclude con un messaggio sinistro: «È della massima importanza, durante il vostro soggiorno […], che evitiate di portare con voi dei documenti o delle note che, se si perdessero in un incidente d’auto sempre possibile, non potrebbero finire senza inconvenienti nelle mani dei funzionari dello Stato indipendente».

Pietro non se ne cura e nell’aprile 1905 parte per il Congo; arrivato a Brazzaville, il Governatore Émile Gentil ostacola le indagini e gli interrogatori diventano quasi impossibili. La svolta avviene in modo inaspettato, quando uno stregone si esibisce in una danza rituale davanti a tutta l’intendenza francese, ben sapendo che solo Pietro avrebbe capito il senso dei suoi movimenti. E così accade: Brazzà scopre che a poca distanza dalla città ci sono uomini in catene, ostaggi nelle mani delle compagnie private dedite alla raccolta del caucciù, persino un campo di concentramento.

L’indagine riparte e arriva a conclusioni durissime: il Congo francese non è diverso dal famigerato Congo belga. Pietro riparte per la Francia, ma d’improvviso si sente male. Dopo un viaggio terribile sul traghetto che dovrebbe riportarlo a Bordeaux, è costretto a fare scalo a Dakar, dove muore il 14 settembre 1905, a 53 anni, ufficialmente di malattia. Il Parlamento dichiara cordoglio, ma la moglie accusa: suo marito è stato avvelenato.

Perciò, alla richiesta di portare la salma nel Pantheon, prestigio supremo, Thérèse oppone un rifiuto sdegnato: la tomba rimarrà ad Algeri. Le carte dell’indagine, invece, scompaiono nel nulla. Poi, nel 1965, la scoperta clamorosa: la ricercatrice Catherine Conquery-Vidrovitch ritrova nell’Archivio d’Oltremare di Aix-en-Provence una copia a stampa del Rapporto Brazzà, la n.1 di sole 10 pubblicate sessant’anni prima a uso interno del governo. Sopra, un bollo eloquente: «Molto confidenziale», a dimostrarne la censura. Eppure, l’esplosivo Rapporto Brazzà rimane nuovamente in un cassetto fino al 2014, quando una casa editrice finalmente lo pubblica: a distanza di 109 anni, la sua lettura è una discesa all’inferno.

A questa storia, però, la Repubblica del Congo ha voluto dare un lieto fine, onorando la memoria di Pietro con la costruzione di un mausoleo nella sua Brazzaville: un tributo al «fratello bianco» che vide, nel suo sogno di fratellanza, «l’infinita ombra del vero»*.

*Giovanni Pascoli, Aléxandros

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