Trieste centro della ricerca contro il cancro. Può sembrare un’affermazione azzardata, eppure nel capoluogo regionale opera quotidianamente uno dei massimi esperti mondiali in materia, sempre in prima linea nello sviluppo della patologia molecolare (ovvero l’applicazione di tecniche di biologia molecolare al fine di individuare una corretta diagnosi) e nella lotta ai tumori.
Giorgio Stanta, professore di Anatomia Patologica presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Trieste, tuttavia si sente in primo luogo un ricercatore. Quasi un paradosso in un periodo storico in cui proprio la ricerca non sembra catalizzare su di sé le attenzioni di politici e amministratori. «Da sempre – racconta in esclusiva per iMagazine – ho avuto una grande curiosità per qualsiasi aspetto scientifico e quando mi sono iscritto alla Facoltà di Medicina, ho iniziato a frequentare subito quegli istituti che apparivano essere i più interessanti per la ricerca, ma non per la ricerca di base (quella svolta sulle cellule isolate), bensì per la ricerca applicata sull’intero organismo nel campo della patologia umana. Inoltre ho avuto la fortuna di incontrare uno dei fondatori della Facoltà di Medicina a Trieste, il professor Benedetto de Bernard».
Perché fortuna?
«Lui ha sempre dato appoggio alle mie iniziative, fino a darmi la possibilità di poter avere un piccolo laboratorio nel suo istituto, anche senza farne parte. Credo che, per un giovane che ha l’inclinazione alla ricerca, incontrare i giusti mentori sia assolutamente la base per costruire qualcosa».
E ciò avviene regolarmente?
«Una delle grandi delusioni è stata scoprire che alcuni accademici erano uomini più interessati agli aspetti di potere della loro posizione di prestigio, rispetto alla propria disciplina. Da allora sono rimasto convinto che, per rendere migliore e più meritocratica la nostra università, bisognerebbe togliere agli accademici le opportunità di gestire potere che non sia puramente intellettuale: questo renderebbe meno appetibile l’accesso alle strutture accademiche a personaggi più interessati alla propria autopromozione e prestigio che alla scienza».
Come valorizzare allora i giovani ricercatori in campo biomedico?
«Fare ricerca è un’attività dura e difficile: può essere svolta con successo solo da persone che abbiano una grande curiosità e passione. Fare il ricercatore significa dedicare completamente la propria vita alla ricerca, senza limiti di tempo».
Come giudica la preparazione dei giovani laureati-ricercatori in Italia?
«La laurea nella ricerca è solo un passo iniziale che permette di comprendere uno specifico linguaggio scientifico. Le esperienze successive sono quelle che formano il ricercatore, specialmente un buon dottorato di ricerca post-laurea».
A chi dice che per un ricercatore è meglio andare all’estero, lei cosa risponde?
«Credo che per un giovane ricercatore sia opportuno fare qualche esperienza all’estero per imparare a conoscere l’ambiente della ricerca che non ha frontiere ed è sempre globale. Questa possibilità, tuttavia, può presentarsi al giovane anche attraverso istituzioni accademiche italiane che hanno contatti costanti con l’ambiente internazionale e ciò è dimostrato dal livello raggiunto dai nostri giovani dottorandi».
Nel suo caso l’esperienza all’estero è stata determinante...
«Alla fine degli anni Ottanta mi sono recato alla Yale University (nel New England, USA, ndr) dove ho incontrato alcuni fra i primi ricercatori che si sono occupati di patologia umana usando i metodi della biologia molecolare. Al mio ritorno in Italia si era strutturata l’Area di Ricerca, dove ho avuto la fortuna di un secondo incontro con un grande ricercatore, Francisco Baralle».
E da qui inizia la sua storia di ricercatore.
«Baralle, uno dei padri degli splicing alternativi (uno dei passaggi base per trasferire quello che è scritto nel DNA alla funzione vera e propria nella cellula), mi ha permesso di continuare anche a Trieste le mie ricerche per rendere accessibili agli esami molecolari i tessuti routinariamente conservati negli ospedali, che sono tessuti trattati chimicamente per non degenerare (fissati), ed inclusi in paraffina per fare sottili sezioni da indagare al microscopio».
Tradotto per i non addetti ai lavori?
«Significa aprire alla nuova diagnostica molecolare tutti i tessuti clinici asportati per biopsia o trattamento chirurgico ai pazienti. Un’esperienza importante per un avanzamento tecnico rilevante in campo internazionale. Gli olandesi sono stati i primi ad analizzare il DNA in questo tipo di tessuti, mentre noi a Trieste abbiamo messo a punto le tecniche per l’RNA e i tedeschi di Monaco le proteine: gli altri due tipi di molecole che, oltre al DNA, sono alla base della vita. Tutti questi gruppi fanno ora parte del gruppo europeo IMPACTS, che coordino personalmente».
A quali tipi di tumore, in particolare, dedica i suoi studi?
«Stiamo cercando di migliorare la terapia per i tumori del colon: stiamo presentando un nuovo brevetto assieme all’Università di Graz per i cosiddetti biomarcatori predittivi, cioè quelle analisi molecolari che ci permettono di predire meglio l’efficacia di un determinato farmaco in uno specifico paziente».
Un aspetto delicatissimo.
«Questo è particolarmente importante per la nuova generazione di farmaci usati in oncologia, che possono costare anche 30.000 euro per il trattamento di un singolo paziente. Se non limitiamo questi farmaci soltanto ai pazienti che ne possono trarre un reale beneficio, nel prossimo futuro i nostri sistemi sanitari nazionali saranno condannati al fallimento economico, o certe terapie saranno accessibili solo a quei pazienti che se le possono permettere. Questo dà un chiaro segno di quale sia l’utilità di queste ricerche applicate alla clinica: non solo un avanzamento della medicina, ma anche un sistema per mantenere l’accessibilità economica alle terapie più avanzate».
E gli altri tipi di tumore?
«Oltre al colon stiamo lavorando sui tumori mammari, quelli cutanei e stiamo partendo con un progetto internazionale per i tumori prostatici».
Torniamo un attimo ai biomarcatori molecolari: perché sono così utili?
«Attraverso analisi molecolari nei tessuti solidi o nel sangue dei pazienti, i biomarcatori possono essere predittivi dell’efficacia di una terapia in uno specifico paziente, ma possono anche essere utili per stabilire la prognosi e definire così il rischio di una recidiva di tumore dopo la terapia chirurgica. Inoltre sono un’importante componente della cosiddetta medicina personalizzata, fondamentale per ottenere la massima efficacia e avere i minimi effetti collaterali possibili».
Lei sta studiando l’applicazione delle nanotecnologie nella lotta contro il cancro: a che punto siamo?
«La ricerca biologico-medica è strettamente legata alle nuove tecnologie disponibili. Le nanotecnologie affrontano i problemi biologici con una riduzione di scala, fino a giungere a tecnologie che lavorano a livello delle molecole. In questo modo si possono utilizzare minime quantità di materiale - anche una singola cellula - per fare un’analisi molecolare; si possono avere nuovi metodi per somministrare i farmaci solo alle cellule ammalate, senza danneggiare quelle sane; oppure si possono concentrare solo in una specifica area terapie fisiche efficaci. Le nanotecnologie stanno aprendo possibilità impensabili fino a pochissimi anni fa e rivestiranno un importantissimo ruolo nel futuro della medicina».
Restiamo invece nel presente: com’è la situazione della ricerca oncologica in Italia?
«Oggi non esiste una ricerca nazionale, ma contributi alla ricerca internazionale che vengono da ricercatori di vari paesi e l’Italia fornisce un importante aiuto alla ricerca clinica specialmente in campo oncologico. In Italia la ricerca più avanzata in medicina è quella applicata direttamente ai pazienti: infatti, dai dati internazionali disponibili, questa ricerca vanta un più 17% rispetto alla ricerca internazionale; per la ricerca di base, invece, siamo messi male, poiché abbiamo un meno 17%».
Come si spiega questo scenario?
«Questione di risorse. Si vede così come in Italia, avendo a disposizione gli stessi pazienti che hanno anche gli altri paesi, cioè con le stesse condizioni, riusciamo a fare meglio. Dove invece l’impegno economico di sostegno alla ricerca di base non è ben finanziato, la concorrenza con Stati impegnati maggiormente nella ricerca viene meno».
Prima di chiudere torniamo a parlare di lei: la ricerca e la docenza le lasciano del tempo libero?
«Poco. Anche se amo molto leggere, soprattutto saggistica, e praticare attività sportive e ricreative all’aria aperta».
Cosa pensa del mondo che la circonda?
«Lo ritengo un mondo con grandi opportunità che possono però essere compromesse da interessi troppo parziali o da atteggiamenti che sembrano di un’incredibile irrazionalità».
Abbiamo parlato dell’estero, concludiamo con casa nostra: cosa vorrebbe nell’immediato futuro per la nostra regione?
«Mi auguro che vengano evitate concorrenze inutili e dannose. Tutta la regione ha meno abitanti che una grande città; per avere successo è quindi indispensabile una stretta collaborazione, mettendo in luce le competenze che già esistono piuttosto che organizzare grandi progetti senza fondamenta solide e già comprovate, che hanno possibilità di successo troppo limitate».
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