Questa è la storia di tre uomini senza patria, girovaghi per scelta e per necessità. Europei molti secoli prima che l’Europa fosse concepita dalla politica. Tre cittadini del mondo che incrociarono, nella loro vita, anche il Friuli Venezia Giulia. Questa è la storia di Dante, Petrarca e Boccaccio. E della terra che li ha ospitati.
Toscana e Friuli: una lunga relazione
Dalla metà del Duecento, i rapporti fra la Toscana e il nostro Patriarcato divennero molto intensi: la Patria del Friuli favorì l’immigrazione di numerosi toscani, attratti dalle opportunità economiche offerte dai commerci con l’Est e l’Europa centrale. Di questa immigrazione abbiamo varie testimonianze, compresi gli stessi cognomi rimasti in regione: Lucchini, Florencis, Pisani... Ma è nella letteratura che troviamo le prove più interessanti, come nelle Trecento Novelle di Franco Sacchetti (1332 - 1400). Nella novella XXXVII, Sacchetti parla di «Bernardo di Nerino, vocato Croce » che fu titolare di un banco di gioco in Friuli e tornò ricco nella sua Firenze, e di «Gioanni Zati, non essendo ancora cavaliero, essendo molto piccolo e sparuto», il cui padre aveva prestato servizio «in Frioli»; nella CXXXI e nella CLXXVII l’autore cita invece un certo Salvestro Brunelleschi, «avendo una sua donna piacevolissima friolana... essendo elli stato quasi sempre in Frioli». C’è addirittura una novella, la XCII, ambientata a Spilimbergo: protagonista «Soccebonel di Frioli, andando a comprare panno da uno ritagliatore, credendolo avere ingannato nella misura, e il ritagliatore ha ingannato lui grossamente». È la storia di una truffa: Soccebonel vuole una «cioppa da barons», un furlanismo per indicare una cappa, un mantello per ripararsi dalla pioggia. Egli cerca di barare sulle misure, ma il ritagliatore, un toscano scaltro, si accorge dell’inganno: alla fine, a rimetterci sarà Soccebonel, che rimarrà con una risibile mantellina.
Il passaggio di Dante fra leggenda e realtà
Firenze, 1302: la presa del potere da parte dei Guelfi Neri porta alla cacciata di Dante, guelfo bianco. Il sommo poeta non tornerà mai più nella sua città, ma è proprio questo peregrinare che gli consente di allargare il suo orizzonte: finisce la poesia stilnovista, inizia una nuova avventura artistica. Nel 1304 esce il De vulgari eloquentia, in cui viene teorizzato un volgare illustre capace di elevarsi, nella letteratura, allo stesso rango del latino. Nell’esame delle varie parlate italiane, Dante accenna anche al friulano: Post hoc Aquilegienses et Ystrianos cribremus, qui Ce fas-tu? crudeliter accentuando eructuant, «E poi scarteremo gli Aquileiesi e gli Istriani, che eruttano Ce fas-tu? Con rozzi accenti» (I. 11). Lapidario.
Ma torniamo alla biografi a di Dante. Il periodo dal 1308 al 1311 è immerso nella nebbia: dov’è stato in quegli anni? Forse anche dalle nostre parti. In Paradiso IX 44 si accenna al Tagliamento come confine orientale della Marca Trevigiana, in Inferno XV 9 alla «Carentana» (la Carinzia), in Inferno XXXII ai ghiacci dell’«Osterlicchi» e del «Tabernicchi», ossia dell’Austria e del monte Iavornik in Slovenia, presso Postumia. Proprio in Slovenia, a Tolmino, esiste la Dantovna Jama, la Grotta di Dante, dove la tradizione popolare racconta di un poeta, avvolto in un mantello rosso, pensoso all’ingresso dell’antro. Ed è ancora in Inferno, IX 113 s., il passo che più ha fatto discutere: «sì com’a Pola, presso del Carnaro / ch’Italia chiude e suoi termini bagna». La citazione ha alimentato leggende che vogliono Dante presente prima a Trieste, quindi a Parenzo e infine a Pola e nel Quarnaro. A Duino, addirittura, sarebbe stato ospite dei Della Torre: lo Scoglio di Dante, nella baia sotto il castello, ne rinnova ancora la memoria. E proprio ai Della Torre apparteneva Pagano, prima vescovo di Padova e poi, dal 1319 al 1332, Patriarca di Aquileia, all’interno della cui basilica riposa ancora oggi. Pagano era una vecchia conoscenza di Dante: si narra che il Patriarca abbia ospitato il sommo poeta a Udine nel 1319 e che il conte Enrico II abbia fatto lo stesso nella sua Gorizia.
Leggende o realtà? Al lettore risponderò proprio con Dante: «Non ti crucciare!». E goditi questi racconti!
Il Friuli cavalleresco di Giovanni Boccaccio
Decameron: ‘dieci giorni’. Recita così, con un nome greco, il titolo dell’opera più famosa di Giovanni Boccaccio. Dieci giorni in cui, nel corso del 1348, sette fanciulle e tre giovani si ritirano in campagna per fuggire dalla peste che sta flagellando Firenze. Ogni giorno viene scelto un ‘re’ della brigata, incaricato di fissare il tema della giornata: a turno, ogni componente del gruppo racconterà una novella. Ed ecco che, nella decima e ultima giornata, dedicata ai gesti liberali in amore, la fanciulla Emilia inizia la quinta novella: «In Frioli, paese, quantunque freddo, lieto di belle montagne, di più fiumi e di chiare fontane, è una terra chiamata Udine, nella quale fu già una bella e nobile donna, chiamata madonna Dianora, e moglie d’un gran ricco uomo nominato Gilberto, assai piacevole e di buona aria». Dianora è amata da un nobiluomo di Grado, Ansaldo, che chiede alla donna cosa fare per conquistarla. Questa, fedele al marito Gilberto, risponde che c’è solo un modo per averla: trasformare un grande giardino in gennaio come fosse nel mese di maggio, «pieno di verdi erbe, di fi ori e di fronzuti albori ». Una richiesta impossibile, ma Ansaldo non si scoraggia: cerca qualcuno che lo possa aiutare e finalmente incontra «uno il quale, dove ben salariato fosse, per arte nigromantica profereva di farlo. Col quale messer Ansaldo per grandissima quantità di moneta convenutosi, lieto aspettò il tempo postogli». Il mago riesce nell’impresa: nella notte fra il 31 dicembre e il 1° gennaio, si materializza il giardino primaverile «in un bellissimo prato vicino alla città». Gli studiosi hanno pensato all’attuale Piazza I Maggio, posta appena fuori le mura, dove esisteva un lago fi no ai primi del Trecento, quando fu prosciugato grazie a lavori di bonifica così complessi e rapidi da far parlare, all’epoca, di ‘negromanzia’. E se Boccaccio si fosse ispirato a fatti reali? Intanto, la voce del prodigio si sparge in città: Dianora accorre e ammira, stupefatta, il giardino. Confidatasi con Gilberto, viene obbligata dal marito ad andare dal pretendente, per cercare di sciogliere la promessa: «Dove altramenti non si potesse, per questa volta il corpo, ma non l’animo, gli concedi». La donna, recatasi da Ansaldo, confessa in lacrime il motivo della visita: il nobile, commosso dalla liberalità di Gilberto, congeda Dianora salvandole l’onore e dimostrando a sua volta grande nobiltà d’animo. Il mago, per non essere da meno, rifiuta il denaro di Ansaldo e ritira il giardino incantato.
Una novella edificante sul disprezzo dei beni materiali in favore di comportamenti cavallereschi: uno spaccato di un medioevo ormai al tramonto, possibile solo se ambientato in un Friuli ancora ‘vergine’ e arcaico agli occhi di un toscano, figlio di una regione dominata dal commercio, dalle banche e da una ‘borghesia’ comunale in piena scalata sociale.
C’è da chiedersi, anche in questo caso, se Boccaccio venne davvero in Friuli: pare che nel gennaio 1352 passò effettivamente a Udine per recarsi in Tirolo da Ludovico di Baviera, in missione diplomatica per conto del comune di Firenze. E chissà se proprio qui non bevve un bicchiere di quella ribolla che cita nel suo commento al canto VI dell’Inferno di Dante, come esempio di bevanda tracannata dai golosi?
Il passaggio di Francesco Petrarca
Siamo partiti dalla presa del potere dei Guelfi Neri a Firenze, nel 1302, e qui torniamo. Fra gli esiliati non c’è solo Dante, ma anche ser Petracco, che nel 1304 diventa padre di un bimbo destinato a un grande futuro: Francesco Petrarca. Nel 1309 il papato in crisi si trasferisce, soggiogato dal potere del re di Francia, ad Avignone, dove tre anni dopo arriva anche ser Petracco, con famiglia al seguito. Il giovane Francesco, nella città provenzale, può disporre di una gigantesca biblioteca di classici latini, che legge avidamente. Poi, a sedici anni, viene spedito dal padre all’università di Bologna. Qui, come nel più classico dei copioni, abbandona gli studi di diritto e si dedica alla letteratura, stavolta in volgare: Bologna, non a caso, era stata la città che aveva visto fiorire la lirica di Guido Guinizelli, uno dei padri della poesia italiana.
Latino e volgare, l’Africa e il Canzoniere: i due indirizzi della letteratura di Petrarca. E su tutto, una passione smodata per i libri, che lo porterà a fare straordinarie scoperte di manoscritti. Giunto al crepuscolo di una vita intensissima, la sua fama è immensa: dalla Boemia, Carlo IV, Sacro Romano Imperatore, intrattiene rapporti epistolari con Petrarca, invitandolo più volte a Praga. Il poeta ammira il sovrano, ma non rinuncia a critiche anche feroci, come quando lo accusa di disinteresse per la situazione dell’Italia (Familiares XIX 12): «Ti chiameranno pure imperatore dei Romani, ma in verità tu sei soltanto re di Boemia». Un rapporto schietto, che si traduce in due incontri: nel 1354 a Mantova... e nella primavera del 1368 a Udine, dove il poeta si trattiene per una settimana, ospite di casa Antonini Deciani in via Rauscedo. Non sappiamo cosa si dissero, Petrarca e Carlo IV, nel castello della città, sotto la protezione del patriarca Marquardo, ma mi piace immaginarli intenti a discussioni filosofi che e letterarie, piuttosto che politiche: li vedo seduti in una stanza, con gli amati libri in mano, a parlare di Cicerone e Tito Livio. Una discussione da umanisti, parola affascinante che racconta di un vento nuovo, che iniziò a spirare proprio da Nord-Est. Ma questa è un’altra storia, che racconteremo nella prossima puntata.
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