In direzione ostinata e contraria

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Vanni Veronesi

28 Agosto 2015
Reading Time: 6 minutes

Francesco Robortello

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Una carriera fulminea

«Non fu allevato a Udine, bensì nelle foreste della Carnia, ossia fra i monti dell’Italia più remota»: così scrive, in segno di disprezzo, il modenese Carlo Sigonio nelle sue Discussioni padovane (1564) a proposito di Francesco Robortello, il nemico intellettuale di tutta una vita. Che invece nasce il 9 settembre 1516 proprio a Udine, dove compie i primi studi letterari per poi trasferirsi a Bologna, ancora giovanissimo; qui segue le lezioni di Romolo Amaseo, anch’egli udinese, il più celebre umanista del tempo. Il talento di Robortello è precoce: finiti gli studi a tempo di record, inizia a peregrinare fra Venezia, Padova e Firenze in qualità di precettore dei fi gli di buona famiglia, in attesa di un incarico pubblico. Che arriva a soli ventun anni, a Lucca, piccola e orgogliosa Repubblica indipendente, dove nel 1537 inizia il suo primo corso di letteratura classica, dedicato a Virgilio.

Qui, nel 1541, approda anche Celio Secondo Curione, l’erudito che, con il pretesto di educare i giovani alla cultura, tenta di diffondere il verbo della Riforma protestante: è proprio Robortello a denunciarlo, portando alla cacciata di Curione dalla città. Questo zelo, in un momento in cui le idee di Lutero trovano simpatizzanti anche in Italia, gli vale le prime antipatie: poco tempo dopo, la morte di un oscuro professore lucchese, Pietro Vicentino, viene attribuita da alcune malelingue proprio a Francesco per semplici screzi accademici. Una calunnia, naturalmente, ma è la prima di una lunga serie; perché quella di Robortello sarà una vita in trincea.

La rivoluzione della Poetica

Nel 1543, mentre Francesco pubblica il suo primo libro di Annotationes su autori greci e latini, arriva la chiamata attesa da tutta la vita: l’Università di Pisa, appena riaperta da Cosimo de’ Medici, cerca nuovi docenti per riportare l’ateneo alla gloria del Trecento. Per l’umanista udinese è un’occasione unica; lavorare per i Medici, infatti, significa entrare nel solco di una tradizione gloriosa: quella di Marsilio Ficino, Angelo Poliziano, Giano Lascaris, che nel Quattrocento erano stati il faro della civiltà europea, in particolare per la riscoperta del greco antico. Robortello non vuole essere da meno e così, messo da parte il Virgilio degli anni lucchesi, si avvicina allo studio di Aristotele, partendo dalla Retorica e arrivando alla Poetica.

Un’opera che, ai suoi tempi, è avvolta nella leggenda; le pur meritorie traduzioni latine e italiane già esistenti sono poco note e bisogna attendere il 1508 per avere la prima edizione a stampa in lingua greca, pubblicata a Venezia da Aldo Manuzio. Nessuno, però, ha ancora azzardato una interpretazione sistematica dell’opera: ci pensa proprio Francesco nel 1548, dando alle stampe le Explicationes in librum Aristote lis de Arte Poetica, il primo, monumentale commento al trattato del filosofo greco. La definizione della poesia, la classificazione delle sue forme, le caratteristiche dell’epica, l’origine del teatro, le unità di tempo, spazio e azione, l’effetto purificatore (la cosiddetta ‘catarsi’) della tragedia, il concetto di ‘imitazione del vero’: gli argomenti affrontati da Aristotele, finalmente restituiti al pubblico degli intellettuali grazie a un’esegesi completa, si diffondono in tutta Europa provocando un vero terremoto culturale, ma anche una ondata di astio da parte dei colleghi dell’Udinese.

E se Giulio Cesare Scaligero si limita a insultarlo con l’epiteto di «bestia», nel 1550 Vincenzo Maggi pubblica a sua volta un commento alla Poetica, nel quale afferma che sarebbe un «crimine di empietà» non mettere in guardia i giovani dagli errori di Robortello, colpevole di non aver interpretato i precetti aristotelici in chiave moralistico-pedagogica, ossia cattolica. Un’obiezione tanto vera quanto assurda per un filologo puro come Francesco, il cui unico riferimento è la verità del testo; ma nell’Italia della Controriforma – il Concilio di Trento ha aperto i battenti cinque anni prima – non c’è spazio per un non allineato: triste ironia della sorte per uno che, nel 1541, aveva denunciato un protestante. L’Aristotele di Maggi, lontanissimo da quello di Robortello, assurge dunque a unico modello possibile per gli autori di teatro e di poesia, imponendo sull’Italia una cappa di classicismo che diventerà la foglia di fico della repressione.

Gli anni d’oro

Intanto, nel 1549, Francesco passa a Venezia. Qui nel 1552 pubblica un’edizione delle tragedie di Eschilo che farà storia: è lui, infatti, a riconoscere per primo la caduta, nella tradizione manoscritta, di un’intera sezione a cavallo fra le tragedie   Agamennone e Coefore, comprendendo che i due testi, trasmessi senza soluzione di continuità, sono invece opere separate; fondamentale, inoltre, il suo contributo alla corretta distribuzione delle battute fra i vari personaggi e alla giusta scansione metrica dei versi, due elementi trasmessi con estrema confusione dai codici medievali. Ma il 1552 è anche l’anno delle editiones principes, ossia delle prime pubblicazioni a stampa di autori fino a quel momento trasmessi unicamente con la copia manoscritta: spettano a Robortello, infatti, le prime assolute degli antichi commenti a margine (i cosiddetti ‘scoli’) ad Eschilo e del Libro di arte militare di Eliano, autore greco del II sec. d.C., da lui tradotto in latino.

Questa tempra da pioniere gli vale la promozione, nello stesso 1552, all’Università di Padova, ma per trovare uno stampatore disposto a pubblicare la sua ennesima edizione principe deve rivolgersi alla lontana Svizzera: così, la prima assoluta del trattato Del sublime, opera greca del I sec. d.C. annoverata fra i più begli esempi di critica letteraria di tutti i tempi, esce a Basilea nel 1554, per i tipi di Johannes Herbst, ben felice di dare spazio al lavoro di Robortello.

A cui, intanto, sulla cattedra veneziana è successo il sopra citato Carlo Sigonio, che nel 1553 sferra contro l’umanista udinese un attacco durissimo: una polemica su questioni di antichità romana che travalicherà subito sul personale e occuperà i due contendenti in una lotta lunga dieci anni, combattuta a colpi di opuscoli e di cattedre sottratte l’uno all’altro. Nel 1557, stanco dell’ostilità padovana, Francesco accetta l’invito dell’università di Bologna, non prima di aver dato alle stampe un’altra opera mai nemmeno concepita fi no ad allora: il De arte critica sive ratione corrigendi antiquorum libros disputatio, il più antico manuale di filologia. In esso Robortello delinea i principi di quella che oggi definiamo ‘critica del testo’: la necessità di confrontare tutti i manoscritti della stessa opera per trovare il testo migliore, lo studio delle antiche grafie e delle filigrane cartacee per riconoscere l’epoca di confezione dei codici, la classifi cazione degli errori tipici degli amanuensi nella copiatura, i criteri per correggere un brano riconosciuto come errato. Emblematica la sua introduzione:

Se guardi al fine della nostra trasmissione, quella che stiamo in questo momento per presentare, puoi dire che si tratta di restituire gli antichi scrittori alla loro antica chiarezza. Sono invero di grande utilità coloro che si dedicano alla correzione dei classici. Infatti, se è vero che i concetti vengono espressi con le parole, necessariamente ignorerai i concetti stessi, laddove le parole siano corrotte. E non c’è chi non veda quanto danno arrechi l’ignoranza dei concetti, specialmente nel caso di discipline importanti. È fondamentale dunque la professione del correggere i testi antichi […]: una volta restituiti al loro splendore, infatti, più facilmente si possono capire e spesso una sola parola raddrizzata offre la nozione di un qualche grosso concetto, che non conosciamo affatto o conosciamo confusamente.

Eppure, anche per il De arte critica il successo arride solo all’estero, tanto che il volume sarà ristampato a Francoforte nel 1604, ad Amsterdam nel 1662 e ad Hannover nel 1746, mentre in patria le polemiche degli avversari oscurano tutti i meriti dell’opera, troppo rivoluzionaria per l’Italia di allora.

L’ultima fase

Nel 1560 Robortello ottiene una piccola rivincita: la Serenissima, infatti, lo richiama a Padova, costringendo Carlo Sigonio al trasferimento a Bologna. Ma i tempi delle grandi edizioni sono finiti: abbandonate tutte le polemiche a partire dal 1563, Francesco decide di dedicarsi completamente ai suoi allievi, con i quali instaura un rapporto straordinario, e a pubblicazioni pensate appositamente per loro, come il De artifi cio dicendi, pratico manuale di figure retoriche. A seguire le sue lezioni, però, sono soprattutto gli studenti del Nord Europa, che accorrono spinti dalla fama di quell’umanista udinese che ha fatto scoprire al mondo la Poetica di Aristotele e altri testi dimenticati. E nel 1567, quando una pleurite lo porta via per sempre, sarà proprio un gruppo di studenti tedeschi a realizzare per lui, morto in povertà, un monumento funebre:

A Francesco Robortello, udinese, chiarissimo professore di arte retorica e filosofi a morale, che in vari fiorentissimi ginnasi d’Italia insegnò pubblicamente con grande notorietà di fama per trent’anni completi, la nazione tedesca pose unanime per il benemerito precettore a perpetua memoria della propria gratitudine d’animo. Visse per anni cinquanta, mesi sei, giorni 9. Morì il 18 aprile 1567.

La toccante dedica in latino è ancora leggibile sul monumento oggi conservato nel Chiostro del Noviziato adiacente alla Basilica di S. Antonio, a Padova. Unico segno di gratitudine per una vita ingiustamente dimenticata, spesa a viaggiare verso la conoscenza. In direzione ostinata e contraria. 

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