Come si vive nella natura?

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Michele Tomaselli

24 Settembre 2015
Reading Time: 7 minutes

L’incredibile storia di Claudia Cazzaniga

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Claudia Cazzaniga, di origini piemontesi, aveva tutto: denaro e agiatezza, ma si sentiva oppressa. La sua famiglia era atea, così, era cresciuta senza una religione. Per dieci anni ha insegnato in Liguria, presso una scuola d’infanzia, anche se il padre, ricco industriale, l’avrebbe voluta con sé in azienda.

La svolta arrivò all’età di 33 anni, quando, trovando rifugio nel buddismo, decise di fare un voto di povertà. Così, per 14 anni, è vissuta senza denaro, nutrendosi della generosità della gente e dei prodotti della terra. Nel 2003 la scelta di partire per un lungo viaggio, percorrendo quasi 21 mila chilometri a piedi, fino ad arrivare in Kazakistan. Mesi durissimi, di tante sofferenze, con temperature siberiane, anche sotto i 40° C; poi il drammatico rimpatrio in Italia; il carcere prima in Repubblica Ceca e quindi in Austria. E poi sette anni di vita nel bosco. Trovando sempre la forza per andare avanti.

Tutto comincia a Canebola, una piccola frazione del Comune di Faedis, dove assieme al fotografo Igino Durisotti, a Elisabetta Sacchi e a Barbara Bacchetti, incontro casualmente Claudia e, in sua compagnia, iniziamo a sorseggiare dell’ottima tisana alla sambuca.

Claudia, come hai fatto ad arrivare in Kazakistan?

«Attraversai il fiume Volga, quindi oltrepassai l’Ucraina e la Russia fino ad arrivare in Kazakistan. L’Ucraina è un grande territorio: il paese più esteso d’Europa, dopo la Russia; allora era controllata da un’autocrazia post-sovietica. Camminavo con uno zainetto e vivevo “alla giornata”. Mi ricordo che pregavo sotto un albero e, grazie alla recitazione dei mantra, trovavo la forza per andare avanti. Ero sfinita e pesavo solo 33 chilogrammi. Avevo bisogno di sentire la voce di mia madre che, grazie alla preghiera, riuscivo a percepire. Dormivo dove capitava e non indossavo scarpe ai piedi. C’era comunque solidarietà nelle persone che incontravo».

Facciamo ancora un passo indietro: come iniziò la tua avventura?

«Tutto ebbe inizio a Villa Vrindavana, a Castellino in Chianti, nel cuore della Toscana: la principale sede degli Hare Krishna in Italia. Avevo imparato la cultura vedica, in particolare a ritenermi un’anima spirituale di Dio, ad assistere ogni es sere vivente senza pretendere debita riconoscenza e a recitare i mantra, quella forma di preghiera in grado di purificare la mente. Successivamente iniziai a frequentare un altro centro vedico nella provincia di Vicenza. Nel 2003 decisi di fare un voto e, così, partii per la Mongolia. Attraversai l’Austria, l’Ungheria, la Repubblica Ceca, la Polonia, l’Ucraina, la Russia e infine il Kazakistan. In tutto 21.000 chilometri a piedi. Camminai lungo i boschi e lungo gli argini dei fi umi, divenendo una grande conoscitrice del bosco».

Cosa successe in Kazakistan?

«Purtroppo fu un’esperienza terribile: i militari credettero che fossi una spia e, per questo motivo, mi rinchiusero in una gattabuia. Subito dopo mi sottoposero a un interrogatorio che non scorderò: non comprendevo bene la lingua e non ascoltavo le loro domande. Asserivo che non ero una spia e che il mio intento era di arrivare fino in Mongolia. Non fui comunque creduta. Così iniziarono le mie operazioni di rimpatrio per l’Italia».

Ma al rientro in patria hai ripreso a camminare. Come mai?

«All’aeroporto di Fiumicino non capivo cosa mi stesse succedendo e meditavo. Ritenevo che dovevo riprendere il mio cammino verso la Mongolia, secondo il voto intrapreso due anni prima. Così, attraversai l’Abruzzo e il Litorale Adriatico. Camminavo fra spiagge e pinete con il mio piccolo fagottino e dormivo dove capitava: fra le spiagge, i porti e le case dei pescatori. Sentivo l’aria di salsedine e il profumo del pescato. D’un tratto cambiai orizzonte e valicai le Alpi, fino a raggiungere la Repubblica Ceca. Incontrai diverse famiglie Rom, sempre molto ospitali. Ero debole, ma dovevo raggiungere la Mongolia. Ogni giorno facevo il saluto al sole».

Ma anche questa volta il tuo viaggio subì un brusco stop.

«Venni arrestata dalla polizia ceca e feci 108 giorni in carcere per il reato di clandestinità. Dietro le sbarre vivevo bene, assieme a 5 ragazze cinesi e a una mongola. Mi sembrava un paradiso: il cibo era buono, le strutture erano accoglienti e fra di noi vi era rispetto. Sebbene non protestassi, venni consegnata alla polizia federale austriaca. In Austria mi sottoposero a un durissimo isolamento: non mangiavo nulla e arrivai a pesare 32 chilogrammi. Come se non bastasse volevano che mi dichiarassi pazza. Le mie condizioni di salute peggioravano, tanto che, dopo 53 giorni di prigionia, mi ricoverarono in un ospedale vicino a Graz. Solo grazie alla preghiera sono riuscita a sopravvivere».

Poi cosa successe?

«Trovai la forza per scappare, anche se ero ridotta malissimo. Sembravo uno straccio, camminavo a gattoni strisciando a terra e mi nutrivo solo dei frutti degli alberi. Avevo le allucinazioni. Per percorrere pochi metri mi sembrava di vivere un’eternità. Mi ritrovai in mezzo ai pascoli, e quando pensai di essere spacciata fortunosamente una famiglia mi aiutò, offrendomi dei viveri e un giaciglio per la notte. Fu la mia salvezza».

A quel punto cosa decidesti di fare?

«Riuscii a chiamare mia madre: fu un sollievo sentirla. La sua voce mi diede la forza per proseguire. Alla stazione di Villaco, dopo tre settimane in fuga, presi un treno per Tarvisio, trasgredendo una delle due regole ferree che mi ero imposta: camminare senza mai usare alcun mezzo di trasporto (l’altra era non usare le coperte durante la notte). Arrivata a Tarvisio Bosco Verde ripresi a camminare».

La tappa seguente fu Udine.

«Ricordo bene il giorno in cui arrivai: era il 7 luglio 2007. Ad attendermi c’era una mia cara amica dei tempi della Toscana. L’incontro fu un segno premonitore del mio destino, perché la mia amica mi propose di camminare lungo il fiume Natisone, secondo un sogno rivelatore che avrebbe indicato la mia strada».

E così accadde?

«Percorsi l’alveo del Natisone – bellissimo e incontaminato – e arrivai a Pulfero. Lì conobbi uno scultore che mi propose di frequentare la Comunità di Polava: un luogo di meditazione e di pace al confine con la Slovenia. Anche qui non tenevo una fissa dimora e dormivo dove capitava: fra gli stavoli e in mezzo ai covoni. Assieme a Plinio e a Ornella lavoravo  intensamente, ma il mio pensiero era sempre rivolto alla preghiera. Dopo un po’ di tempo, alcuni dei miei nuovi amici mi proposero di vivere nel bosco, sopra Faedis, in una capanna fra il Foran di Landri e il Foran des Aganis. E io accettai».

Che genere di esperienza fu?

«Vissi 7 anni nel bosco, un mondo tutto da scoprire: un luogo di pace e tranquillità, ma allo stesso tempo efferato e crudele, ove vige la legge del più forte. Dedicavo metà giornata alla cura del mio corpo, l’altra alla ricerca del cibo e delle erbe selvatiche. La mia preghiera era sempre più intensa e meditavo con maggiore enfasi. Spremevo le bacche ma m’incuriosivano strane leggende delle creature del bosco. Mi intrigavano le anguane, dette agane, che, secondo la credenza popolare friulana, sono una specie di sirene che vivono accanto ai corsi d’acqua. Dormivo tantissimo; con i sacchi delle patate facevo lo stoppino per accendere il fuoco e cucinavo in una piccola pentola. Durante l’estate mi spostavo nel parco delle Prealpi Giulie, dormendo dove capitava: nei bivacchi, nelle capanne e nei fienili. Un giorno ho incontrato l’orso: un’esperienza che non consiglio di vivere a nessuno».

Nel bosco non incontrasti solo l’orso…

«Nel mio nuovo habitat imparai a conoscere meglio le specie e le sottospecie del bosco. Moltissimi erano gli alberi ad alto fusto: le querce, i castagni, i faggi, i frassini, i tigli. Nelle cavità dei tronchi vivevano piccoli mammiferi (scoiattoli, ghiri). Lo scoiattolo preparava la tana nelle cavità naturali del tronco per ripararsi dall’inverno, mentre la volpe scavava il covo tra le radici degli alberi. Tanti insetti volavano da un fiore all’altro e si cibavano delle foglie. Sotto gli alberi ad alto fusto vivevano piante più basse che si accontentavano di meno luce e che costituivano la strato inferiore del bosco: il melo selvatico, il sambuco, il sorbo. Immaginavo di trovarmi in una torre di tanti piani: al piano terra i funghi, i muschi, le erbe e i fiori; al primo piano i cespugli; al secondo piano gli arbusti e al piano più alto le chiome degli alberi. Ma l’albero è come una grande casa. Infatti gran parte della gente è al corrente, che, nel tronco e nei rami degli alberi vivono formiche, ragni, lucertole e cavallette, mentre nelle foglie trovano spazio i bruchi, le farfalle, le coccinelle e le lumache, e che nelle radici si generano i lombrichi, le larve e i piccoli insetti».

Ma anche questa esperienza giunse alla fine.

«Nell’inverno del 2014 la galaverna mise a dura prova ogni forma di vita del bosco, tanto che la mia capanna venne danneggiata irreparabilmente, costringendomi a emigrare altrove. Fortunosamente, l’Assessore alla Cultura del Comune di Faedis si prese a cuore la mia situazione proponendomi di andare a vivere a Canebola, nell’ex casa parrocchiale. Qui ho iniziato a dare spazio alla mia creatività, raccogliendo piante officinali come l’aglio Orsino (Allium ursinum) e tanti altri prodotti del sotto bosco. Tutto questo mi consente di produrre artigianalmente saponi a cera, tisane al gusto di primavera, sambuco, acacia, ma anche ai germogli di primavera e alle cime di luppolo. Per tutto questo ringrazio la Comunità di Canebola e di Faedis che mi ha accolta a braccia aperte».

 

Nota dell’autore: desidero ringraziare la giornalista Elisabetta Sacchi che ha contribuito alla riuscita dell’intervista.

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