Sassi nello stagno della Grande Guerra

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Donne in prima linea

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In una guerra ci sono tanti soldati galantuomini, magari eroi, ma anche tantissimi mascalzoni, sicuramente vili. Le guerre spesso portano con sé tutto quello che di male un popolo produce. Oltre a malattie, prigionia, fame, morte e malanni di ogni genere, una ignominia delle più odiose, assommata alle altre, è quella della violenza sulle donne.

Le conseguenze in moltissimi casi risultano facilmente immaginabili: la nascita di figli non voluti, frutto non di amore, ma di sopraffazione. La propaganda nella Prima guerra mondiale, sui vari fronti in lotta, assunse toni talmente aspri da legittimare l’infanticidio.

La stessa cosa, ma con toni diversi, avvenne nel periodo dell’occupazione italiana del 1915, ‘16 e ‘17 nei paesi di San Canzian, Pieris, Turriaco, Cassegliano, San Pier d’Isonzo e, seppur in tono minore, a Fogliano, Sagrado, Ronchi, Monfalcone e Staranzano solo per il fatto che erano stati del tutto o in parte evacuati.

Risultarono pure casi in cui le donne furono consenzienti e seppero in seguito assumersi dignitosamente la propria responsabilità sia verso la famiglia sia verso i mariti lontani. Fu una specie di prezzo/umiliazione che la popolazione civile bisiaca dovette pagare/subire in quanto si era considerata occupata e non liberata dall’Esercito italiano. Questo i soldati italiani lo capirono fi n dal primo giorno, quando videro che la popolazione locale non salutò festosamente il loro arrivo. Ciò avvenne in alcuni casi, che da storici di parte o in malafede, sono stati definiti come il naturale trasporto del “lasciarsi prendere”. Le giovani bisiache non avrebbero aspettato altro che questo per donarsi con amore agli agognati liberatori.

Questa impietosa rappresentazione dei soldati italiani si è venuta a formare in seguito a fatti poco conosciuti e ancora meno divulgati proprio per il timore di far nascere, a distanza di anni, il risentimento e la vergogna dei parenti, i quali li hanno sempre tenuti nascosti. Un signora di Turriaco, di cui omettiamo il nome, ha raccontato in un’intervista che una notte durante la guerra, alcuni soldati italiani cercarono di forzare la porta della camera dove lei, la sorella e la madre dormivano da sole, perché il padre era lontano per il servizio militare austro-ungarico. Presero tanta paura che dovettero rifugiarsi presso la famiglia di un loro zio.

Ma quante furono le porte forzate che invece cedettero? Difficile dirlo, anche perché non tutto ciò che si sussurrava in giro giungeva agli orecchi otturati dalla vergogna e dalla paura. Era meglio non sapere e far finta di niente: il silenzio, alla fi ne, aiutava a nascondere la propria dignità perduta. Dopo la guerra fu costituita una Commissione d’inchiesta dalla quale le violenze carnali in massima parte furono ignorate. Il motivo principale fu che il pudore della gente di campagna, come quella bisiaca, inibì le vittime dal denunciare i fatti. Non si conoscerà mai il numero preciso delle donne ferite dal “fenomeno”, anche perché molte di esse si prostituirono per fame. Ci furono casi in cui alcune donne di Turriaco furono viste stazionare nelle vicinanze di osterie in dubbia attesa. Alcune di loro furono colte sul fatto dai proprietari e cacciate via con la scopa. A lenire gli orrori e placare le voglie che una guerra ingenera, a Turriaco funzionavano trenta osterie, una Casa del soldato e due bordelli legalizzati. Istituiti a scopo ricreativo, questi “casini di guerra” risultavano spesso insufficienti a soddisfare l’enorme richiesta (mediamente a Turriaco stazionavano dai cinque ai seimila soldati, più quelli che venivano da fuori).

Diverse volte la “Villa delle vergini”, così si chiamava il casino di Turriaco, fu presa d’assalto dai soldati che, eccitati e stufi di aspettare il proprio turno, travolsero le guardie, sequestrarono le “signorine” e le portarono a spalla, nude, in giro per il paese, accompagnate da grida di sedizione contro il Governo, l’Esercito e inneggiando alla fine della guerra. Come in tanti altri paesi anche a Turriaco esisteva una “Casa del soldato”, istituzione fondata a scopo ricreativo per i soldati al fronte. In queste “case” si organizzavano delle manifestazioni al chiuso come serate teatrali, cinematografiche e numeri di varietà. All’aperto, l’albero della “cuccagna”, gare sportive, il gioco del calcio e quello della tombola. I premi andavano dal materiale per scrivere ai fiaschi di vino agli alcolici vari e al tabacco. Quelli più ambiti erano le marchette per il “casino”.

A Turriaco le manifestazioni al chiuso si tenevano nel complesso agricolo del Giudice Snidero, oggi proprietà del signor Livio Tonca, ma anche in chiesa. Quelle all’aperto nella zona Sud del complesso Priuli. Turriaco allora contava 1.500 abitanti circa, di cui 750 femmine e, di esse, almeno 300-350 erano in “età”. Se i nati registrati furono 33, di sicuro un’altra decina, e forse più, furono gli aborti e almeno un’altra cinquantina di donne furono violate, anche se la conseguenza non fu quella interessata all’odioso fenomeno dei figli di guerra non voluti.

Da aggiungere a questo gli abusi verso i bambini per un pezzo di cioccolato o un po’ di zucchero. Madri che, all’avvicinarsi di militari, mandavano le proprie figlie, zà regazete (già ragazzette, ndr), ai piani superiori e a chiudersi nelle camere per paura che facessero loro del male.

Provate a pensare all’umiliazione del militare austriaco che ritorna a casa dopo quattro anni di guerra e trova la moglie che ha avuto un figlio dal nemico contro il quale lui aveva combattuto. Alcuni la presero male, anzi malissimo, come un soldato di Turriaco che, per la disperazione, ritornò in prima linea da dove non fece più ritorno. Oppure un altro, sempre di Turriaco che, dato per morto, trovò poi la moglie con un figlio non suo e maritata con un soldato italiano. Ci furono anche situazioni tragicomiche come quelle di una certa Maria che, alle contumelie del marito offeso, rispose “Se capisse lori, i taliani i era zovini e sprafumadi, miga ti che te xe vec’ e che te sa noma de pet!” (traduzione dal bisiaco: “gli italiani erano giovani e profumati, mica come te che sei vecchio e che sai solo di scoreggia”). Un altro tenne la moglie in casa, ma senza mai rivolgerle la parola. Qualcuno ebbe dalla moglie addirittura un altro figlio, ma senza parlare mai con lei. Ci fu chi, ritornato a casa ed espressa la sua rabbia, si prese un sacco di legnate dalla moglie e dai fratelli di lei e fu cacciato da casa. Ma la cosa più triste fu che oltre la metà dei bambini nati da relazioni più o meno consenzienti non superarono l’anno di età. Infatti a Turriaco su 33 “fi gli di guerra” ben 17 morirono di morte “naturale” pochi mesi dopo la nascita. Nel “Liber Defunctorum” della parrocchia di Turriaco,  relativo agli anni 1917 e ’18, le cause di morte dei nati illegittimi, definiti figli della guerra, sono gastroenterite acuta, polmonite e debolezza. Correva voce che i figli delle violenze non potessero che nascere “tarati e pericolosi” per la società.

Da testimonianze raccolte negli anni Ottanta del 1900, si ricordava ancora, senza fare i nomi, che i figli degli italiani venivano lasciati scoperti durante l’inverno, nutriti con pastasciutta anzi tempo o semplicemente denutriti. Insomma non bisognava accettare i figli del nemico: erano solo “roba di talians laris, bausars e sporcaciòns” (traduzione dal friulano “roba di italiani ladri, bugiardi e sporcaccioni”).

Due casi ebbero un “lieto fine”: il padre ritornato dalla guerra dette il proprio cognome al figlio della sola moglie, togliendogli l’aggettivo di illegittimo. I nomi di quei nati sono inusuali nel nostro paese e riflettono la situazione del momento, come Italia, Innocente, Italia Maria, Redenta Italia, Cirino, Italo, Concetta o semplicemente “talian”.

Poi c’erano delle donne che, per non lasciar traccia della nascita nel registro parrocchiale di Turriaco, andarono a partorire in paesi dell’interno. Una andò addirittura a partorire a Udine, dove lasciò le due gemelle avute in un orfanotrofio, quelli con la “ruota della carità”, e fece ritorno senza niente, a man spacolando (traduzione dal bisiaco: a mani vuote). Nella villa Mangilli di Turriaco, sede del Comando del XIII Corpo d’Armata, funzionava ottimamente un salotto dove si teneva la conta delle donne turriachesi ingravidate dai soldati italiani. A tener aggiornati i tempi di gestazione, del parto e dei nomi degli illegittimi, ci pensavano le donne addette al lavaggio della biancheria e alla mensa ufficiali, che quotidianamente si aggiravano nei paraggi. Alla nascita di ogni figlio “italiano”, i militari gridavano: ”Evviva!”, come se fosse stata conquistata un’importante “quota” carsica. Le donne che avevano partorito figli legittimi si diceva che le véa vù mentre quelle che avevano partorito figli illegittimi si diceva che le véa bù. Tra il vù e il bù, spesso, si celava la differenza che c’è fra il sentimento della gioia e quello del dramma familiare.

Poi con l’arrivo dell’Italia tutto ciò fu messo a tacere e fu coperto da un muro di omertà, attuato dalle autorità con la propaganda dei vincitori. Va da sé che la storiografia, quella degli studiosi di comodo, accentuò solo gli esecrabili misfatti e aberrazioni del sesso compiute dalle truppe tedesche, austriache, ungheresi, croate, bosniache e boeme quando occuparono una buona porzione di territorio italiano a seguito della rotta di Caporetto del 1917.

Di ciò che fecero i soldati italiani non troverete nessuna traccia. La memoria diretta non esiste più perché i figli della guerra sono ormai tutti morti. Sono rimasti soltanto i registri parrocchiali dei battezzati e dei defunti a testimoniare l’umiliazione che tante madri bisiache e “furlane” dovettero subire cent’anni fa.

La cosa vista dalla parte degli occupanti naturalmente prende una connotazione del tutto diversa: Ugo Ojetti, giornalista incaricato di rastrellare i tesori artistici nel territorio del Friuli austriaco conquistato, in alcune lettere alla moglie vantava il fatto che nel Monfalconese e nel Cervignanese un congruo numero di mogli di combattenti austro-ungarici fossero state ingravidate dai suoi “baldi soldati”.

Terminata la guerra, sappiamo tutti come è andata a finire: le province del Friuli austriaco passarono all’Italia. Nel luglio del 1919, quel buon uomo che fu monsignor Celso Costantini pensò bene di istituire a Portogruaro un Ospizio per i figli della guerra, per ricoverare, mantenere ed educare i bambini nati da donne maritate, mentre il loro marito, per le vicende del conflitto, era stato assente. Monsignor Costantini aveva preso gli opportuni accordi con le superiori autorità civili ed ecclesiastiche con l’intenzione di accogliere nello stesso Istituto anche i figli della guerra esistenti nel territorio di Monfalcone. Egli chiese a tutti i sacerdoti della Bisiacaria e della Bassa friulana di preparare un elenco per facilitare la ricomposizione e la pace delle famiglie. Monsignor Costantini ebbe poi l’intenzione di trasportare l’Istituto, o una filiale di esso, in uno dei nostri paesi, insediandolo in una villa, meglio se con campagna adiacente. Probabilmente pensava a villa Fabris di Begliano, che si prestava benissimo allo scopo. Pertanto invitò tutti i sacerdoti a inviare al più presto i dati dei figli in questione.

Non sappiamo che fine abbia fatto questa idea e se i nostri sacerdoti si premurarono d’inviare la lista dei figli dei “taliani” della loro parrocchia. Personalmente dalle ricerche fatte e soprattutto dalla memoria orale tramandata da alcune persone interessate ai fatti, penso di no.

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