Il dramma di una scelta

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Andrea Fiore

8 Gennaio 2016
Reading Time: 3 minutes

Salute mentale

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Leggi, interpretazioni, coscienza, umanità, medicina e psichiatria. Ci sono tutti questi ingredienti dietro alla gran parte dei casi di Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO): ovvero quelle misure sanitarie, motivate da necessità e urgenza clinica, conseguenti al rifiuto di cure da parte di un soggetto che soffre di grave patologia psichiatrica non altrimenti gestibile, a tutela della sua salute e della sicurezza pubblica.

Chi, come, dove, quando e perché

Prima di analizzarne i risvolti umani e sociali, è indispensabile comprendere tutte le coordinate del fenomeno. Il TSO è infatti una misura di restrizione della libertà individuale della persona, seppur per un periodo limitato di tempo (massimo sette giorni). La sua richiesta può essere effettuata esclusivamente dal sindaco del comune di residenza del soggetto interessato, su proposta di due medici, di cui almeno uno psichiatra di struttura ospedaliera pubblica. Una volta firmata dal primo cittadino, la richiesta deve essere infine convalidata dal giudice tutelare per competenza entro le 24 ore successive. La legge indica la scelta del luogo di ricovero nei Centri di Salute Mentale (CSM) o, dove assenti o per diversa valutazione, nei reparti di psichiatria esistenti negli ospedali generali.

La mente come fulcro

Il TSO non può essere attivato se lo stato di alterazione è dovuto a demenza, alcol, droghe, infezioni e neoplasie cerebrali, nonostante il pericolo evidente per le cose e le persone altrui. Può quindi essere richiesto solo se la persona è affetta da schizofrenia e disturbi dell’umore o gravi disturbi della personalità. Un aspetto che ha fatto e continua a fare discutere.

Molto spesso, infatti, nei SerT (Servizi per le tossicodipendenze) i Trattamenti Sanitari Obbligatori risulterebbero un efficace strumento di cura, perché consentirebbero di monitorare per un breve ma fondamentale periodo che i pazienti coinvolti non assumano sostanze stupefacenti, permettendo agli operatori di avviare un percorso di recupero su persone non alterate.

Al confine tra patologia e comportamento

Se il TSO può essere ordinato solo nei confronti di soggetti con gravi patologie psichiatriche, la questione è presto definita: quando un caso è grave da motivarne la richiesta? E, soprattutto, quando è frutto di una patologia e non di una reazione a determinati comportamenti? Un esempio può aiutarci: se un figlio reagisce violentemente nei confronti del genitore che, a suo avviso, lo perseguita con atteggiamenti troppo insistenti o ossessivi nel tempo, è un problema di patologia (il ragazzo è matto) o di comportamento (relazione genitore/figlio)?

Una linea di demarcazione più sottile di quello che si crede, con ripercussioni pesanti una volta superata. Il TSO, infatti, è sempre qualcosa di negativo dal punto di vista emotivo, anche quando richiesto perché un soggetto rifiuta cure per lui fondamentali.

Si tratta di un momento di grande sofferenza sia per la persona che lo subisce sia per i familiari che le stanno accanto, poiché vivono inevitabilmente l’evento come una loro sconfitta. A parere di chi scrive, il TSO, da qualunque lato lo si veda, rappresenta una sconfitta per l’intera psichiatria. Ecco perché è una soluzione da prendere in considerazione nel modo più limitato possibile. Pur tuttavia, per esperienza professionale diretta vissuta sul campo, ritengo al tempo stesso che la sua totale eliminazione sarebbe sbagliata: di fronte a determinati casi, infatti, ricorrervi risulta indispensabile.

Come fare a sapere quali sono i casi giusti? Quando medicina e coscienza pongono di fronte a un bivio, la scelta è sovente drammatica. Ecco perché la risposta esatta, questa volta, non esiste.

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