Primo giorno: da Tarvisio a Moggio Udinese
È sabato: a Tarvisio il cielo è basso, l’aria umida, ma l’entusiasmo mio, di Alessandro e Marianna è alle stelle. In centro città imbocchiamo la pista che ci conduce alla massiccia Torre Ottagona, unica sopravvissuta delle tre che nel Quattrocento furono innalzate per difendere l’area dalle scorrerie dei Turchi: oggi continua a vegliare sulla quattrocentesca chiesa di San Pietro e Paolo, che ci offre uno spettacolo di travature gotiche, affreschi rinascimentali, altari barocchi, fino agli interventi degli anni Sessanta perfettamente fusi nel contesto. Sulla facciata trionfa un affresco del XIV sec. scoperto all’interno e ricollocato qui: è un San Cristoforo, patrono dei viaggiatori. Anche noi lo salutiamo, per proseguire in direzione di Camporosso. Fra selve oscure e luminosi pascoli, con il fiume Fella a segnare la geologia e l’identità stessa della Valcanale, passiamo Valbruna e Ugovizza. Il percorso che stiamo seguendo affianca quello della via romana Julia Augusta, che partiva da Aquileia e arrivava in Carinzia. Alcuni affermano che già in epoca preistorica esisteva questo percorso; di certo, di qua sono passati tutti: Quadi, Marcomanni, Goti, Alemanni, Visigoti, Ostrogoti, Unni, Longobardi, Franchi, Ungari, Turchi.
E intanto arriviamo a Malborghetto, che mutò nome dal precedente ‘Buonborghetto’ in seguito alle continue lotte fra la Serenissima e l’Austria per il controllo del territorio. Territorio che gli Asburgo difesero con tenacia, e la presenza del forte Hensel (dal nome del generale che lo progettò) è ancora lì a testimoniarlo, nonostante i cannoneggiamenti napoleonici del 1809 e quelli delle truppe italiane durante la Prima Guerra Mondiale. Oggi, una piramide in marmo con un’epigrafe in tedesco e sotto un leone di bronzo ferito destano l’ignara meraviglia degli autisti che vi transitano a pochi metri, sull’autostrada che buca la montagna. Quell’autostrada che noi, sulla ciclovia, seguiamo a distanza toccando Pontebba, Pietratagliata e Dogna lungo lo spettacolare tracciato della vecchia ferrovia Pontebbana, miracolo dell’ingegneria ottocentesca su cui oggi i binari non corrono più; quell’autostrada che ha reso le comunicazioni più facili a prezzo di un enorme sconvolgimento ambientale e sociale. Lo descrive in una sua poesia Pierluigi Cappello: la voce che afferma «non si rimane qui senza uno scopo» è di chi resta a difendere la sua terra e a continuare la tradizione, perché «se la montagna frana, la mia faccia frana un poco al giorno / se il fiume si dissecca, il mio cuore è pronto a disseccare / se l’autostrada mette ombra all’ombra della valle / ne trovi il taglio qui, poco sotto l’ombelico / com’è vero che il cerchio si aggiunge al cerchio nel mutarsi del tronco». Ed è a lui che pensiamo arrivati nella sua Chiusaforte, ennesimo nome parlante: stazione romana sulla via Julia Augusta, era punto di passaggio obbligato in una strozzatura tra i monti nella valle del Fella, da cui l’antico nome ‘Chiusa’. Fu il patriarca di Aquileia Vodolrico (1086-1121) a costituirvi una dogana per il pagamento dei pedaggi, con relativa fortificazione e castello.
Lasciamo il paese e arriviamo in località – nomen omen - Ponte Peraria. Correre sullo strepitoso ponte ciclabile, un tempo ferroviario, è un’esperienza unica: sembra di volare sul fiume Fella, che ci accompagna inesorabile dalla mattina. Anche lui vuole arrivare a Moggio Udinese, dove riceverà le acque del torrente Aupa, ma prima ci sono le località di Rovederedo e Ovedasso.
Arrivati a Moggio, la Locanda San Gallo ci delizia con un’ottima cena; e poi, tutti a nanna per riguadagnare le forze in vista dell’indomani.
Secondo giorno: da Moggio Udinese a Udine
La pioggia notturna ha rinfrescato la Val d’Aupa, che si apre spettacolare ai nostri occhi questa domenica, una volta risalita l’altura su cui sorge la storica abbazia di Moggio. Fondata nel 1085 in un luogo già abitato in epoca romana, nel XVI secolo ebbe fra i suoi priori addirittura S. Carlo Borromeo; oggi la struttura è un convento di clausura, risorta dopo il terremoto del ‘76. E l’onda lunga del sisma è il filo conduttore della giornata odierna; la ricostruzione è stata esemplare, ma è impossibile non pensare a quel 6 maggio che ha cancellato un Friuli ancora rurale per sostituirlo con le contraddizioni della modernità. La strada militare che da Moggio ci porta ad Amaro è un continuo susseguirsi di cascate, boschi e pittoreschi scorci sul Canal del Ferro, ma un senso di composta solennità ci pervade: Venzone è alle porte.
Appena arrivati memorizziamo un nome: Hipha Bombicina Pers. Si tratta di una muffa parassita che vegeta nelle tombe del Duomo, capace di disidratare i corpi e trasformare la pelle in una specie di pergamena: è grazie ad essa che, nel XIX sec., furono portate alla luce quasi quaranta mummie, che persino Napoleone volle vedere. Ne sono esposte cinque nell’antica Cappella di San Michele: le osserviamo con rispetto. La bellezza di questo borgo ci abbaglia: qui crollò il 98% delle costruzioni, ma chi non sapesse del terremoto penserebbe di trovarsi di fronte a un borgo immutato dal Medioevo, con il suo palazzo comunale, le sue strade lastricate e il suo duomo, dove entriamo per ammirare i lacerti di affreschi e un fantastico Compianto sul Cristo morto del 1530, il cui legno maciullato sembra evocare la tragedia del ‘76. è lo stesso simbolismo che ritroviamo nella splendida cattedrale di Gemona, l’altro paese emblema della morte e resurrezione del Friuli: la scultura del Cristo crocifisso senza braccia è di una potenza drammatica degna di un’opera espressionista. All’esterno, i rosoni ingentiliscono la severa facciata, dove domina un’enorme statua di San Cristoforo: di nuovo lui, come a Tarvisio.
Ce ne andiamo ammirando le vie e i porticati brulicanti di vita per andare verso gli ameni sentieri campestri delle risorgive dai Bars: prati, acque, boschetti. La piana di Osoppo che li ospita è una breve parentesi prima che il paesaggio riprenda a muoversi nella fascia delle colline moreniche. è qui che si è dipanata l’epopea della famiglia Colloredo: a Susans ne ammiriamo la residenza estiva del XVII sec., che sembra uscita dal Chianti delle cartoline; a Pers ricordiamo la figura di Ciro, poeta simbolo del Barocco italiano; a Colloredo di Monte Albano, la località che ha dato il nome al casato, ritroviamo il castello che ospitò Ermes, altro campione del Seicento letterario, e soprattutto Ippolito Nievo, uno dei Mille che seguì Garibaldi e autore delle Confessioni di un Italiano, forse il più grande romanzo della nostra letteratura.
La strada che scende dal Monte Albano è meravigliosa, immortalata anche in un fotogramma del film La ragazza del lago: poi, il Parco del Cormor, con la sua natura rigogliosa, e infine Udine, dove la sera ci coglie stanchi, affamati... ma felici.
Terzo giorno: da Udine a Grado
Cappuccino e cornetto aprono il nostro lunedì, ultima giornata sui pedali. Il centro storico di Udine è bello come sempre, ma il tempo è tiranno e occorre uscire verso Pradamano, che si rivela una scoperta inattesa: rimaniamo incantati di fronte a Villa Giacomelli, l’ultima grande residenza nobiliare della regione costruita con i canoni della villa veneta (1852). E da qui in avanti è tutto un fiorire di antichi palazzi immersi nel verde: a Pavia di Udine, villa Lovaria e palazzo Mantica-Frangipane; a Selvuzzis, villa Deciani; a Persereano, Villa Florio; a Tissano, villa del Torso e infine, a Santa Maria la Longa, di nuovo una villa dei Colloredo, dove fu ospitato nella Grande Guerra il primo centro europeo di fotografia aerea, oltre all’immancabile Gabriele D’Annunzio.
Chissà cosa disse il Vate quando vide, a poca distanza, una delle poche colonne della giustizia sopravvissute in Italia: la Berlina, che con il suo carico di storia è ancora lì come monito per chi delinque. Il tempo di rileggere i versi che Giuseppe Ungaretti compose a Santa Maria la Longa, fra cui Mattino (il proverbiale «M’illumino / d’immenso »), e in un attimo siamo a Mereto di Capitolo, dove ci viene incontro la chiesa di San Pietro: un angolo intatto di XV sec., uno di quelli che rende l’Italia il Belpaese. Come Palmanova, la città stellata che dalla fi ne del Cinquecento svetta nella pianura: un progetto geniale dell’architetto Giulio Savorgnan, un’idea della Serenissima per sorvegliare le mosse degli Asburgo con la scusa di creare un baluardo contro i Turchi, una roccaforte così perfetta da risultare imprendibile agli occhi dei nemici, che infatti non l’attaccarono mai. L’immensa piazza è dominata dal Duomo: l’interno è la sublimazione del Rinascimento, mentre il reliquiario all’ingresso è un’esplosione di puro Barocco.
Lasciamo la città per imboccare un percorso campestre e sbuchiamo a Strassoldo, con i suoi castelli costruiti, abbattuti e ricostruiti infinite volte dopo infinite guerre. Di qua sono passati imperatori, principi e generali, ma ora regna la pace in questo borgo incantato, dove esistono ancora i mulini ad acqua. Attraversiamo Cervignano salutando il placido fiume Ausa, dove Venezia e Austria si sono guardate in cagnesco per secoli, e imbocchiamo l’ultimo tratto della ciclabile, ricavato sul sedime della vecchia ferrovia Cervignano-Terzo-Aquileia-Belvedere inaugurata nel 1911: è lo stesso tragitto che fece il convoglio del Milite Ignoto che partì da Aquileia alla fi ne di ottobre del 1921 e arrivò all’Altare della Patria di Roma il 4 novembre. Maria Bergamas, madre di un figlio morto in conflitto e mai trovato, lo scelse fra undici bare in una cerimonia che commosse l’Italia: oggi, gli altri dieci corpi senza nome riposano nel Cimitero degli Eroi, assieme a grandi fi gure della Grande Guerra come Giovanni Randaccio.
Superato il centro siamo a Beligna, il cui nome denuncia il culto del dio celto-romano Beleno, quindi a Pineta San Marco, dove sarebbe sbarcato l’evangelista per portare la Buona Novella; infine a Belvedere, ultimo lembo di terraferma prima dell’agognato mare. E dunque eccola, la laguna di Grado: la fine del nostro viaggio. Grado è la spiaggia della Mitteleuropa, ma profuma già di Bisanzio: ancora oggi è il primo contatto con il mare per fiumane di turisti europei, ma il suo sguardo si è rivolto per secoli all’Impero d’Oriente. E ora anche noi guardiamo laggiù, verso un generico sud, mentre ripensiamo a tutto quello che abbiamo visto in questi tre giorni: perché il Friuli, come diceva Nievo, è davvero il «compendio dell’universo».
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