In tempi di precariato si cercano realtà fisse. Per questo io, Lorenzo e Fabrizio – precari, appunto – abbiamo sentito il bisogno di percorrere a piedi il fiume più importante del Friuli Venezia Giulia: il Tagliamento.
L’avevamo conosciuto solo da ragazzini, quando sfidavamo le sue acque gelide in costumini mezzo inghiottiti dalla pancetta puberale. Oggi, invece, la faccenda è seria. Dobbiamo schiarirci le idee, riprendere contatto con noi stessi e con le nostre radici. Se le sue acque hanno dissetato la nostra regione, allora in un modo o nell’altro hanno dissetato anche noi. Da qui dobbiamo partire.
La sorgente ci si presenta in un mucchietto di foglie umide scansato dalla statale. Non sembra consapevole del destino che lo aspetta laggiù, tra Lignano e Bibione. Uno sguardo alla cartina e via. Vogliamo evitare il più possibile le strade principali, addentrarci nei boschi e riscoprire le antiche vie di pellegrinaggio che un tempo rendevano questo posto un crocevia di popoli e idee.
Camminiamo da poche ore e subito ogni cosa è una scoperta. Gli alberi, i cardi, le case. L’unico contatto che rimane con la città sono i motociclisti che ci sfrecciano accanto, raggomitolati sui loro manubri. Attraversiamo Forni di Sopra, dove un cartello che recita “vietato calpestare l’erba” (paradossale in un paese di montagna) non può che rattristarci. Lasciamo alle spalle la musica dance proveniente da un locale, che rimbomba perfino negli alberi, superiamo la carcassa di una volpe e puntiamo a Forni di Sotto. Qui una splendida notte stellata ci allevia l’acido lattico e ci rinfresca lo spirito. Ci addormentiamo come pupi in un capanno di legno vicino al fiume.
La mattina sgusciamo dai sacchi a pelo con eleganza da trichechi. Durante la giornata superiamo il Passo della Morte e il Monte Corno per scendere fi no a Villa Santina. Immergiamo i piedi nel Degano, accendiamo un fuoco e ci abbrustoliamo qualche pannocchia. Per evitare l’umidità del bosco ci accampiamo sulle amache, come bachi da seta.
A Villa di Verzegnis il muro di una casa riporta fedelmente la storia che l’ha accompagnata fi no ai giorni nostri, tra tedeschi, terremoti e nuove nascite. Il proprietario, incuriosito dai nostri zaini, condivide con noi i suoi ricordi. Un secolo riassumibile in due parole: distruzione e ricostruzione. Un binomio che ci accompagnerà fino alla foce.
Venzone ci avvolge con tutto il suo fascino. Nessuno di noi si aspettava un paese tanto bello, ma sorprendersi è la prima regola del viaggiatore. È troppo tardi per vedere le mummie, quindi ripieghiamo su una birra fresca e rivitalizzante. Un signore si offre di ospitarci per la notte nel suo orto, una distesa di erbetta soffi ce che mette sonno al solo vederla. Conosciamo suo fratello, ci racconta la sua storia. Sono gli anni Sessanta e lui, come molti altri, parte per cercare lavoro all’estero. In Lussemburgo passa 7 anni della sua vita a fare il meccanico. Ottima paga, di cui ancora oggi percepisce 300 euro. Quando parla, i suoi occhi brillano. Come se in quel preciso momento fosse ritornato là, più giovane, più sereno. Sopra i nostri nasi, intanto, le stelle cominciano a scemare. Siamo alle porte della pianura.
Flagogna è la meta del quarto giorno. “Che vuoi che succeda!”, ci diciamo spavaldi. Sono le 12 e il sole è implacabile. Il momento ideale per perdersi in un campo di mais. Nervosi e sudati, vaghiamo fi no a sbucare sulla strada, dove appare un ciclista. Ci accompagna per un po’, ci consiglia una scorciatoia e sparisce come un angelo custode. Lorenzo mi fa pensare a certi fi lm di Pasolini. Che abbia preso spunto dal carattere carnico e friulano per certi suoi personaggi? Mi piace pensarlo. Viaggiare in una terra significa viaggiare dentro una biografia. Ormai è quasi buio e a Flagogna siamo divorati dalle zanzare. Chiamiamo a raccolta le ultime forze e ci incamminiamo verso Pinzano. Malgrado i pericoli, camminare di notte è tutta un’altra cosa. È fresco, i profumi si mescolano e gli animali ti osservano. L’ombra di un ciclista a fari spenti ci sfreccia accanto e ci saluta. E noi neanche lo vediamo. Sentiamo solo il ticchettio dei nostri zaini e un’avvolgente sinfonia di grilli.
Raggiungere Valvasone significa superare metà della cartina. Abbiamo preso ritmo e le nostre schiene non hanno più la forma curva da città. Sulla statale ci imbattiamo in un cagnolino sperduto. Stare in mezzo alla strada non è saggio, né per lui né per i motociclisti. Chiamiamo il 112 e comincia un’avventura tipicamente italiana. Il 112 ci passa alla sezione di Udine che a sua volta ci collega con quella di Pordenone. Il 112 di Pordenone ci passa il 118. Di Udine, però, che prontamente ci passa il 118 di Pordenone. Questi, in un attimo, ci mettono in contatto con il Cinesoccorso. Ma il Cinesoccorso sostiene di non poter intervenire. Ci propone di allertare la Polizia Municipale, che però a quell’ora della mattina risulta chiusa. Morale? Non interviene nessuno. Per fortuna il cane è comprensivo con la razza umana e si dilegua nel bosco.
L’imbarazzo ce lo portiamo sulle spalle fi no a Valvasone. È qui che insegnava Pasolini. Ci incantiamo davanti al mulino e gustiamo il silenzio dell’ex monastero. Don Domenico, parroco di un duomo ricucito dopo il terremoto, ci mette in contatto con il Santuario della Madonna di Rosa a San Vito al Tagliamento, meta della giornata. Mancano 12 km. Si sta facendo tardi e dobbiamo arrivare al santuario entro le 22.30. Flotte di zanzare ci attaccano le gambe mentre galoppiamo a un ritmo più che sostenuto. Qualcuno sbuca da un’osteria e ci urla i complimenti per il fisico. Due bambini accorrono al cancello e ci augurano buon viaggio. Dopo un’ora e mezza, intravediamo il campanile del santuario bucare il buio. Penso a cosa doveva significare, un tempo, uno spettacolo simile. La salvezza dalle fiere e dai briganti. Non è un caso se molti ordini monastici hanno fatto dell’accoglienza una regola. È un concetto squisitamente cristiano e un’ottima mossa politica: nessuno si schiera contro chi può salvarti la vita. Mentre cammino, penso all’etimologia di “accogliere” e al curioso legame con “apprendere”. L’accoglienza sarà sempre un modo rivoluzionario di fare cultura.
Al santuario possiamo farci la doccia e fare un minimo di bucato. Non chiediamo di meglio. Le mie gambe sono un paesaggio lunare di punture d’insetto e non sono mai stato tanto sporco in vita mia. Controllo la mappa e noto con curiosità che molti dei paesini che stiamo attraversando portano nomi di santi: San Michele, San Rocco, San Martino, San Giorgio. Sono cavalieri, militari o pellegrini. In un paesaggio come quello del Tagliamento, solcato da invasioni, epidemie ed esondazioni, che siano segnale di un bisogno eterno di protezione?
Verso Latisana, l’aria trasporta già l’odore della sabbia. Lo sentiamo subito come cani da tartufo. Per i pellegrini di un tempo, in viaggio verso la Terra Santa, doveva essere uno dei segni di Dio. Mi rendo conto che, passo dopo passo, siamo testimoni di come cambino le abitazioni. Siamo partiti circondati da case di montagna, ex case patronali autosufficienti che sovrastano orti giganteschi, difese da grossi cani e solcate da pesanti trattori. Dove siamo noi, invece,
spuntano villette perse nella campagna infuocata. Gli orti, quando ci sono, sono più ristretti. L’erba è bassa e curata. Perfino i cani sono diversi: piccoli e starnazzanti. Cani da salotto. È un altro segno che siamo vicini al mare, luogo di relax e benessere per eccellenza?
A Latisana ci arriviamo cucinati dal sole. Don Oscar, cappellano del duomo, ci ospita in parrocchia e non sappiamo come ringraziarlo. La sera si riempie di gente: è la festa per la processione della Madonna di Sabbionero, che avviene ogni quattro anni. Ci offrono vino, salumi e compagnia. Non resistiamo e chiediamo a uno di loro come facciano a vivere con tutte quelle zanzare. La risposta è eloquente: «Quali zanzare?». All’Hotel Centrale di Pertegada, appena vengono a sapere del nostro viaggio, ci offrono subito il caffè. Anche questo gesto, forse, ci permette di raggiungere finalmente Lignano, stanchi ma carichi. Camminiamo sulla spiaggia con zaini e scarpe da trekking, sotto lo sguardo incuriosito dei bagnanti. La foce è bellissima. Per noi, significa un percorso che si compie, ma che non si chiude in se stesso. Alimenta il mare. Ecco, è questa la risposta che noi, precari, abbiamo cercato per 170 chilometri di strada.
Le tappe del percorso:
Giorno 1: da Passo della Mauria (sorgente) a Forni di Sotto, km 19
Giorno 2: da Forni di Sotto a Villa Santina, km 26
Giorno 3: da Villa Santina a Venzone, km 28
Giorno 4: da Venzone a Pinzano al Tagliamento, km 38
Giorno 5: da Pinzano al Tagliamento a San Vito al Tagliamento, km 36
Giorno 6: da San Vito al Tagliamento a Latisana, km 29
Giorno 7: da Latisana a Lignano Pineta (foce), km 22
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