Le vette del destino

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Michele Tomaselli

4 Novembre 2016
Reading Time: 7 minutes

Dalle Alpi Giulie al Monte Bianco

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Lo Jalovec (o Jalouz), 2645 m., ardito e strapiombante, si eleva nella val Planica, rasente Kranjska Gora. È una cima maestosa, di grande soddisfazione, la quarta punta della Slovenia; sullo spigolo nord Emilio Comici tracciò una delle vie di arrampicata più spettacolari delle Alpi Giulie. Julius Kugy, noto alpinista, botanico, musicista e scrittore giuliano ci salì almeno quindici volte e fu il primo a raggiungerla dal canalone Nord Est, a fondovalle della val Planica.

Così scriveva nel 1925: “Fu il Krammer a insistere per l’ascensione invernale del Jalouz. E quando si studiò questo programma, era di nuovo Natale. Si era in tre: il dott. Bolaffio, Krammer ed io, con le guide Oitzinger e Joze Komac, cui avevo dato l’appuntamento a Kronau. La neve era soffice, vi si affondava fino al ginocchio, sicché non era comodo procedere in Val Planizza, tanto già che pensavamo di rinunciare alla gita. Ma il tempo era bello e c’incoraggiava sempre a proseguire ancora un pezzetto. Con grande disagio e fatica giungemmo finalmente ai piedi del canalone, dove ci toccò la gradita

sorpresa di un completo cambiamento di scena. La neve cominciò a tenere e nei punti molto erti era così buona che la salita al canalone si presentò molto più facile che d’estate. Pericoli di sassi non ce n’era, perché tutto il brecciame mobile era sepolto sotto parecchia neve. Dopo un riposo conveniente sotto la grande roccia isolata ai piedi del canale, guadagnammo quota molto rapidamente, meravigliandoci noi stessi della rapidità con cui raggiungemmo, per l’imbocco superiore, la terrazza Jeserza. Lì si tenne consiglio di guerra. Sul tratto meno inclinato, fino a forcella di Bretto, dove passa la via solita temevamo di trovare neve peggiore, per cui piegammo subito a destra verso i dirupi del Jalouz. Un cammino tutto incrostato di ghiaccio e una breve cengia pure ghiacciata permettevano di montare senza molte difficoltà sul tetto, lungo il quale prendemmo la salita coi ram poni e tagliando scalini. V’era infatti sui lastroni un palmo di ghiaccio, duro, vetrato, che aveva trasformato l’estrema punta del Jalouz in uno scintillante palazzo di cristallo. Qui la faccenda si fece seria, perché i gradini, causa la roccia  sottostante, non potevano essere che piccolissimi. Tuttavia si raggiunse la cresta sud nel suo punto più stretto e poco dopo la cima”.

Dalla vita di un alpinista. Le Alpi Giulie

Marzo 1998

Ammaliato dalle letture di Kugy non mi restava che tentare la vetta; tuttavia l’intenzione era di salirla con gli sci dal rifugio Tamar (a fondovalle della val Planica) seguendo il ripido canalone. L’idea piaceva anche a Joseph che decise di accompagnarmi. Era un alpinista appassionato che aveva percorso centinaia di chilometri con gli sci tra le Alpi, Capo Nord e la Patagonia.

Ma la giornata non fu azzeccata. Trovammo neve pesante e afa, ma cosa ben più grave gli sci non scorrevano. Dopo circa un’ora e mezza di salita l’ambiente si restrinse, immettendosi nello stretto e ripido canale Kugy (oggi, uno degli itinerari di sci ripido più frequentati della zona). Qui le condizioni migliorarono ma a causa della neve dura proseguimmo a piedi, usando ramponi e piccozza. D’altra parte la pendenza era a 45 gradi rendendo difficile fare altrimenti.

Nonostante la fatica, fummo ripagati da panorami mozzafiato e dal fascino imperscrutabile delle Alpi Giulie: un paesaggio di alta montagna severo e solitario con i picchi rivestiti di bianco oltre ad una natura stravolgente. A pochi metri mi si avvicinò perfino un camoscio… Non so chi di noi due fosse più sorpreso: io ero inebetito e non riuscivo a fotografarlo. Quando provai a farlo, lui era già sparito. Così, sperando di rivederlo non mi restava che proseguire. Salimmo lo stretto e ripido canale fino ad arrivare a una sella a quota 2330 m. circa, dove il terreno si apriva e iniziava la via normale: un lungo traverso che guadagnava la cresta Ovest, rimontando un ripido canalino e oltrepassando la cresta fino a raggiungere la guglia sommitale. Le gioie della vetta ci permettevano di godere dello sterminato panorama assaporando del vino rosso. Subito dopo iniziammo ad affrontare la discesa. Fu in quei momenti che, improvvisamente, udii Joseph gridare con terrore e spavento. Non riuscivo a capire cosa stesse dicendo. Sospettando un pericolo, cambiai istintivamente direzione degli sci e mi arrampicai sulle pareti laterali. Fu la mia salvezza. Subito dopo un boato preannunciò l’arrivo di un’enorme slavina: un muro di neve alto un metro e mezzo che, come una cascata, prese la via del canalone, spazzando via tutto come una furia.

Anche Joseph. Da quel momento in poi ci fu il buio. Lo vidi rotolare su e giù in una nuvola di neve, superare uno sperone roccioso, fino ad arrivare seicento metri più sotto, al limite del bosco. Non so quanto aspettai, ma fu un’attesa interminabile. Riaprii gli occhi e affrontai il canalone, fino ad arrivare al fronte della valanga.

Chiamai Joseph, ma non ricevetti nessuna risposta. Nel frattempo due carinziani, scesi dal vicino Kotovo Sedlo, avevano allertato il soccorso sloveno. Con l’ausilio dell’ARTVA (apparecchio di ricerca dei travolti in valanga) rinvenimmo Joseph, sepolto da un metro di neve. Era vivo, seppure in stato confusionale e con qualche ossa rotta. Fu un miracolo.

Da allora le nostre strade si divisero. L’incidente aveva cambiato i nostri rapporti e aveva imposto una pausa di riflessione. Joseph si trasferì in America e, da allora, non ebbi più sue notizie. Ma al destino piace scompaginare le carte. E quasi vent’anni dopo, ci fece incontrare per caso su un’altra montagna. Il Monte Bianco.

Giugno 2016

Si dice che quando arriva una finestra di bel tempo non si può restare a casa. E quella settimana le previsioni lo davano stabile e soleggiato. Non mi restava che caricare gli sci in macchina e partire per Chamonix, in Francia, e dare un senso alla stagione di sci alpinismo. L’obiettivo era la salita del Monte Bianco con gli sci, una delle gite più complete e impegnative dell’arco alpino.

A Plan de l’Aiguille (la stazione intermedia della funivia dell’Aiguille du Midi) iniziai con l’amica Chiara la via normale per il refuge des Grands Mulets, un edificio arroccato a nido d’aquila sopra una rupe e perso in mezzo ai ghiacci. Messi gli sci ai piedi, superammo il ghiacciaio dei Pèlerins, oltrepassando la funivia del Glaciers, fino ad arrivare al ghiacciaio des Bossons. Un luogo davvero spettacolare che scende fino all’ingresso del traforo del Monte Bianco. Eravamo sulle tracce di Jacques Balmat e Michel Gabriel Paccard, i primi due uomini al mondo che nel 1786, lungo questa via, raggiunsero la vetta. La conquista del Monte Bianco fu un’impresa straordinaria soprattutto per gli illuministi che consideravano l’alpinismo una scienza di ricerca ed esplorazione.

Attraversammo il ghiacciaio nella sua zona piatta, salendo alla Jonction (l’unione dei due ghiacciai) in mezzo a torri di ghiaccio, pericolosi crepacci e ponti effimeri, fino ad arrivare al refuge des Grands Mulets giusto in tempo per la cena. Non c’era un gran numero di ospiti. Anche per questo fu facile scorgere Glen Plake, l’asso del freestyle americano (sopravvissuto a una disgrazia sul Manaslu), che riconobbi grazie al suo inconfondibile taglio di cappelli a cresta. Ma la vera sorpresa fu un’altra. Joseph. Nonostante l’età, la sua fisionomia non era cambiata. La gioia di rivedersi fu grande per entrambi. Il resto venne di conseguenza. E tra una chiacchiera e l’altra, decidemmo di salire assieme la cima del Monte Bianco.

La sveglia alle ore 1.15 fu quasi una liberazione, visto che nessuno di noi era riuscito ad addormentarsi. Muniti di pila frontale scendemmo il tratto di roccia che ci separava dal ghiacciaio del Bossons e iniziammo la lunga ascensione verso la vetta. Decidemmo di percorrere la Voie Royale lungo la ripida cresta nord del Dome. Un percorso molto faticoso da effettuare con gli sci in spalla, ma che fortunosamente non è interessato dalla caduta dei seracchi del Petit Plateau. L’aria rarefatta aumentava il senso di fatica, ma a rigenerarci fu la magia dell’alba: lo spettacolo della natura brillava sotto i primi raggi del sole, mentre il buio scompariva lentamente all’orizzonte e il cielo offriva un caleidoscopio di colori caldi e delicati.

Subito dopo raggiungemmo il pianoro del Grand Plateau, a 4000 m., sotto la parete nord del Monte Bianco dove potemmo rimettere gli sci ai piedi. La pendenza aumentava leggermente e la neve ondulata (questo tratto è notevolmente soggetto all’azione del vento) ci costringeva a improbabili acrobazie con gli sci, mettendo a dura prova le pelli di foca. Tuttavia ci stavamo avvicinando sempre di più alla vetta.

Risalimmo gli ultimi pendii fino ad arrivare al rifugio Vallot – un piccolo ricovero di emergenza a 4362 m. – da dove inizia la lunga cresta delle Bosses, che conduce alla sommità del Monte Bianco. Joseph e Chiara avrebbero voluto salirla con gli sci per poi discendere la parete nord, ma le condizioni avverse del tempo ci obbligarono a cambiare programma. Lasciammo gli sci al rifugio Vallot e proseguimmo legati in cordata. Alle 11, dopo oltre 8 ore di salita e tanta fatica, raggiungemmo il tetto d’Europa a 4810 m. In un tripudio di emozioni ci abbracciammo.

Mancava però ancora la discesa per il rientro. D’improvviso il vento iniziò a soffiare con forza e la visibilità non permetteva di vedere a un palmo dal naso. Dovevamo affrontare una zona crepacciata che richiedeva esperienza e prontezza di riflessi. Un minimo errore poteva esserci fatale. Ma la tecnologia GPS e, soprattutto, la lungimiranza di Joseph, ci garantirono un ritorno in sicurezza. Potevo così godermi sia il raggiungimento della vetta che, soprattutto, il ritrovamento di un amico.

Non mi restava che appendere gli sci al chiodo e pensare al mio prossimo viaggio: il trekking della cordillera Huayhuash in Perù.

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