L’Apocalisse dimenticata

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Vanni Veronesi

16 Novembre 2016
Reading Time: 6 minutes

Il “Pastore di Erma”

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Negli anfratti della storia

Questa storia inizia fra le pagine del Chronographus anni 354, un curioso testo compilato nel 354 da Furio Dionisio Filocalo, calligrafo di papa Damaso I. L’opera è divisa in diciassette sezioni comprendenti testi e immagini, nonché una Depositio Martyrum in cui si legge una nota di grande interesse: viii kal Ian natus Christus in Betleem Iudeae, «8 giorni prima delle Kalendae di gennaio Cristo nacque a Betlemme, in Giudea». Considerato che le Kalendae equivalgono al primo giorno del mese, da includere nella sottrazione prevista dal macchinoso sistema romano, il calcolo non lascia spazio a dubbi: siamo di fronte alla prima testimonianza assoluta della nascita di Cristo fissata al 25 dicembre. Il valore di questa notizia è accresciuto da un altro particolare registrato nello stesso Chronographus: nella sesta sezione dell’opera, laddove è riportato l’intero calendario romano, il 25 dicembre presenta ancora la tradizionale dicitura Natalis Invicti, «Nascita del Sole Invitto». Filocalo, dunque, fotografa perfettamente la transizione in atto nell’Impero durante il IV secolo: la festa pagana sta cedendo il passo a quella cristiana, che ha gioco facile nel sostituire il Sole, rinato dopo il solstizio d’inverno, con la figura storica di Gesù, luce del mondo e futuro risorto.

Un’altra sezione del Chronographus, il Catalogus Liberianus, è composta invece da brevi biografie di tutti i papi, da Pietro a Liberio, in carica dal 352. Arrivati a Pio I (metà del II sec.), il Catalogus scrive:

«Pio fu papa per 20 anni, 4 mesi e 21 giorni. Fu papa negli anni di Antonino Pio, dal consolato di Claro e Severo […]. Sotto il suo episcopato suo fratello Erma scrisse un libro nel quale è contenuto l’incarico che a lui prescrisse l’angelo del Signore, quando venne da lui sotto forma di pastore».

Qualcosa di più emerge da un’altra opera di eccezionale importanza per la storia della Chiesa: il Liber Pontificalis, il cui primo nucleo risale alla metà del VI secolo ed è un ideale ampliamento del Catalogus Liberianus. Destinato a una vita lunghissima, tanto da essere aggiornato di volta in volta con le vite di tutti i papi fino al 1464, alla voce ‘Pio I’ il Liber riporta un particolare inedito: il pontefice e il fratello Erma provenivano de civitate Aquilegiae. Ancora una volta una testimonianza eccezionale: vera o meno che sia (non c’è accordo fra gli studiosi), è la prima attestazione di una presenza cristiana ad Aquileia, appena un secolo dopo la leggendaria predicazione di San Marco.

Fra scandalo e nuova morale

Difficile credere che l’attualmente ignoto Pastore di Erma – il libro citato dal Catalogus Liberianus – sia stato uno dei best seller del mondo antico, studiato e citato dai più importanti Padri della Chiesa come Ireneo, Clemente Alessandrino e Origene. Al di là della sua origine aquileiese, di Erma conosciamo solamente le scarne notizie che ci riporta egli stesso, in apertura della sua opera (scritta in greco, lingua ufficiale del Cristianesimo delle origini):

Colui che mi aveva nutrito mi vendette come schiavo a una certa donna, Roda, nella città di Roma. Dopo molti anni feci la sua conoscenza e iniziai a volerle bene come a una sorella. Trascorso del tempo, la vidi bagnarsi nel Tevere e le porsi la mano per aiutarla a uscire dal fiume. Avendo scorto la bellezza delle forme, presi a fantasticare in cuor mio, dicendo: “Come sarei felice se avessi una moglie di tale bellezza e costume!”. Questo pensai, e nient’altro.

L’ingresso immediato nel cuore dei fatti, l’assenza di invocazioni a divinità, l’ambigua relazione fra un servo e la sua padrona, l’accenno alla nudità della donna, la fantasia sessuale: un incipit come questo, nel mondo antico, non si era mai vi sto. Uno scandalo alla Pasolini con diciotto secoli di anticipo, che dimostra il carattere profondamente rivoluzionario del Cristianesimo originale, vero e proprio schiaffo all’ipocrisia della società romana. Il racconto prosegue con le peripezie di Erma, che nel frattempo viene liberato dalla sua vecchia padrona, morta poco dopo; affranto per il suo amore impossibile, Erma è costretto a sposare una ragazza rozza e volgare, che gli darà dei figli perfidi al punto da denunciarlo in quanto cristiano. Allontanatosi dalla famiglia e privato di tutti i suoi beni, si rifugia in una stamberga sulla via Appia, dove assiste a cinque visioni divine, nelle quali la Chiesa appare come una matrona prima vecchissima e poi sempre più giovane, fino a diventare una vergine vestita di bianco; in mezzo, l’immagine della torre costruita sull’acqua, simbolo di una comunità cristiana salda nei suoi mattoni (cioè nei suoi principi), ma costretta ad affrontare i marosi delle persecuzioni; al termine, l’Angelo della Penitenza che si presenta ad Erma sotto forma di pastore e lo invita a seguire la vera fede. Terminate le visioni, l’opera si trasforma in una sorta di trattato morale, con dodici precetti e dieci parabole ricche di allegorie, fino alla provvidenziale riunione della famiglia di Erma nel nome del Signore. Ma sullo sfondo rimane il messaggio della prima apparizione: la fine del mondo, con il suo giudizio finale, è vicina. Come nell’Apocalisse di Giovanni.

Ascesa e caduta

La fortuna del Pastore di Erma è da subito immensa: dapprima tradotta in latino, inizia a  percorrere le strade dell’Impero, diventando punto di riferimento per i cristiani dell’intero  Mediterraneo in un viaggio trionfale lungo due secoli. Finché nel 313 Costantino dichiara la libertà di culto, dando il via a un repentino cambiamento di fronte che culmina nel 380 con l’editto di Teodosio: il Cristianesimo diventa religione di stato. Arrivata al potere, la Chiesa ha ora la necessità di mantenerlo: occorre regolare la liturgia ed arrivare a una sola fede. Ed eccoci quindi al 382, quando papa Damaso I chiude il Concilio di Roma con il De explanatione fidei, nel quale elenca le opere che, da quel momento, formeran no il Novum Testamentum, da affiancare al Vetus in comune con gli Ebrei: il Pastore di Erma, nonostante la sua enorme popolarità, è assente. Un secolo dopo, il decreto di papa Gelasio lo definirà con un termine destinato a diventare inequivocabile: apocryphus.

Il motivo è di ordine squisitamente dottrinale: presentato ora come un angelo, ora come Spirito Santo, ora come figlio di Dio, il Cristo del Pastore resta comunque d istinto d alla figura di Gesù uomo, secondo una tesi che la Chiesa ha da tempo bollato come eretica. L’opera dello scrittore aquileiese è dunque esclusa dal canone della Bibbia, ma la sua storia prosegue: fioriscono versioni in etiope, copto e pahlavi (con un frammento trovato addirittura in Cina), fino ad arrivare alle traduzioni medievali in arabo e georgiano. Un’opera aperta a revisioni, riscritture e contaminazioni, che nonostante la censura continuerà ad essere copiata, trasformandosi però in un testo per pochi eletti, fino a scomparire progressivamente dalla memoria collettiva. Almeno fino al 1740, quando alla Biblioteca Ambrosiana di Milano accade l’incredibile.

La riscoperta

È un tardo pomeriggio di un Settecento ormai illuminista quello in cui Ludovico Antonio Muratori, uno dei massimi intellettuali italiani del tempo, scopre tre fogli anomali inseriti fuori contesto in un manoscritto medievale. La scrittura latina è di VII secolo, ma il contenuto risale alla fine del II: con enorme sorpresa, Muratori si ritrova di fronte alla prima fissazione assoluta di un canone biblico, duecento anni prima rispetto a papa Damaso e, soprattutto, a una o due generazioni di distanza dalla scrittura del Pastore di Erma. Che infatti è puntualmente citato, ma con una precisazione:

«Erma scrisse Il Pastore recentemente, ai nostri tempi, nella città di Roma, mentre il vescovo Pio, suo fratello, occupava la sede episcopale della città. E perciò conviene che sia letto, ma non pubblicamente al popolo in chiesa, come se fosse tra i Profeti, perché il loro numero è completo, né fra gli Apostoli, perché è successivo al loro tempo».

Se è vero che una prescrizione serve a risolvere un problema contingente, il Canone Muratoriano ci racconta qualcosa di straordinario: a pochi decenni dalla sua pubblicazione, il libro dello scrittore aquileiese era letto durante i riti cristiani esattamente come i testi dei Profeti e gli Atti degli apostoli, provocando l’imbarazzo delle gerarchie ecclesiastiche, già alle prese con la piaga delle eresie. Duecento anni più tardi, papa Damaso lo eliminerà definitivamente dal culto.

Oggi però sappiamo che la sorte del Pastore di Erma avrebbe potuto essere diversa: in un altro elenco di libri per la liturgia cristiana, risalente al IV secolo e chiamato Catalogus Claromontanus, il Pastore è infatti registrato fra i libri canonici. Senza contare che il più antico manoscritto al mondo comprendente Antico e Nuovo Testamento, ossia il venerando Codex Sinaiticus del 330-350, lo riporta nei suoi ultimi fascicoli: una scoperta ancora una volta eccezionale, avvenuta nella metà dell’Ottocento presso il Monastero di Santa Caterina del Sinai, fra ladri, falsari e monaci votati al silenzio. Ma questa è davvero un’altra storia. L’ennesima scatola cinese contenuta nell’affascinante vicenda dell’Apocalisse dimenticata.

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