I fari delle Rolls Royce e delle Bmw illuminano la notte che avvolge piazza Tienanmen. Sullo sfondo, il silenzio assordante della Città Proibita regna incontrastato, indifferente alle oltre 18 milioni di persone che vivono, lavorano, pulsano tutt’attorno. Sulle panchine di un’area verde, lavoratori provenienti dalle campagne ed ingaggiati a giornata dormono sotto le stelle nascoste dall’immancabile foschia che avvolge il cielo cittadino. Benvenuti a Pechino, capitale di un vecchio mondo che non c’è più, centro del potere politico e amministrativo della Cina del terzo millennio, che viaggia nel futuro con il piede pigiato sull’acceleratore. Come le Ferrari in bella mostra nello showroom sulla Dongdaqiao Road, uno dei punti nevralgici del made in Italy della megalopoli, dove la passione per il tricolore non conosce barriere.
«Per i cinesi la moda ed i marchi italiani rappresentano il top a livello mondiale»: parola di Yang Jie, 50 anni, professione interprete. «Anch’io – confida – sono innamorato dell’Italia: ho studiato la vostra lingua e la vostra cultura a Bologna e a Roma». Ora a Pechino lavora in proprio, con un canale privilegiato con l’Istituto Italiano per il Commercio Estero (ICE), sempre pronto a contattarlo per appuntamenti pubblici o privati di scambi bilaterali tra il nostro Paese e la Cina. «Sempre più aziende italiane – spiega Yang – attivano relazioni commerciali qui in Cina. La nostra economia viaggia a pieno regime». Osservando le auto di lusso e l’abbigliamento griffato delle persone che si incontrano per strada, difficile dargli torto. Eppure, non è tutto oro quello che luccica: «Negli ultimi anni – precisa – si è ampliata sempre di più la forbice tra le persone ricche, anzi esageratamente ricche, e quelle della classe media». Con buona pace per l’idea comunista di Mao, le cui effige poste all’esterno dei palazzi del potere rappresentano sempre più un’attrazione per i turisti e sempre meno un continuum con il passato. Parafrasando Humphrey Bogart, verrebbe da dire “è il consumismo, bellezza”.
Un ingrediente che, condito con l’apertura al resto del globo di un popolo per anni chiuso nel proprio guscio ma ancora determinato a mantenere la propria identità, crea un condimento esplosivo. Chi invece adora condire seguendo i dettami della cucina italiana è Bao Feng, per tutti Paolo Lee. Nel distretto di Chaoyang, terzo anello della capitale cinese, il suo nome è sinonimo di “Dolce Vita”, il ristorante italiano che ha deciso di aprire al rientro in patria dopo cinque anni trascorsi in Italia tra Umbria e Toscana, a studiare la nostra lingua e, soprattutto, il nostro cibo. «Dopo aver vissuto a Perugia per un lungo periodo – racconta mentre la giovane cameriera Du Li porta in tavola un invitante piatto di penne all’amatriciana – sono tornato a Pechino assieme ad un cuoco italiano conosciuto in loco e ho deciso di aprire questo ristorante». Fortunatamente per lui, una scelta di successo. «Qui in Cina tutto ciò che è italiano attira le persone. Anche la cucina del vostro Paese è molto apprezzata, sebbene alcuni clienti preferiscano “cinesizzare” i piatti», racconta con l’immancabile sorriso tra le labbra. Cinesizzare? «Nella cultura locale – ci spiega – la pasta al dente viene considerata cruda. Talvolta gli avventori, servito il piatto in tavola, ci chiedono di riportarlo in cucina per farlo cucinare di più. E noi li accontentiamo». Perché anche a Pechino il cliente ha sempre ragione.
Ed il proliferare di ogni genere di ristoranti e fast food obbliga ad una concorrenza sempre più serrata. Con tutte le risorse, tecniche e umane, disponibili. Inutile, tuttavia, chiedergli di poter conoscere anche il cuoco italiano: «Dopo aver avviato l’attività – confida – ha deciso di rientrare in Italia. Ora al suo posto c’è un cuoco cinese cui ho insegnato i segreti della vostra straordinaria cucina. Fortunatamente ha imparato in fretta. Provare per credere». Pasta al dente, piatto ripulito, prova superata. Prima di salutarci, dopo l’immancabile limoncello, quando gli chiediamo di scattare alcune foto del suo locale da pubblicare sulla rivista, i suoi occhi si illuminano in un mix di gioia e orgoglio. «L’Italia è meravigliosa: il mio obiettivo – sussurra – è fare in modo che sia i cinesi sia gli italiani possano trovare in questo locale il sapore e l’accoglienza tipiche del vostro Paese».
Un pensiero molto simile a quello di Alessandro Fatovic da Cividale del Friuli, fondatore nel 2008 del primo Fogolâr Furlan cinese, e attuale presidente di quello di Pechino. Dopo cinque anni di esperienza nella capitale, da una ventina di mesi si è trasferito a Shanghai dove lavora per una società canadese in qualità di esperto nella consulenza architettonica. «Giunsi in Cina per la prima volta nel 2004 – racconta – quando sbarcai a Pechino grazie ad una borsa di studio conferitami dall’ICE. Iniziai presto a collaborare con uno studio di progettazione di Milano che mi assunse per costituire una nuova società in Cina». Un percorso iniziato sei anni fa, che ha visto scorrere molta acqua sotto i ponti: «In questi anni – spiega – la Cina è cambiata molto e tuttora continua a cambiare. Penso alla Pechino pre e post Olimpiadi o alla Shanghai pre e post Expo. Sono cambiati gli usi ed i costumi dei cinesi, con un netto miglioramento del tenore di vita, percepibile e visibile nel loro abbigliamento, nelle nuove auto e nell’aumentata capacità di spesa».
Un boom destinato a durare nel tempo? «Il successo dell’economia cinese – constata Fatovic – è da ricercare in molteplici fattori: dalla propensione al commercio alla capacità di risparmio. Ci sono previsioni discordanti su quanto potrà durare questa crescita, soprattutto a questi ritmi. Molti analisti indicano il 2015 come anno di svolta. Dal 2015, infatti, la Cina avrà il 7,7% della popolazione sopra i 65 anni, una soglia considerata a rischio e sostanzialmente frutto della politica del figlio unico. E pensare che gli ultra 65enni, nel 2005, erano appena l’1%. Il precoce invecchiamento della popolazione potrebbe rallentare complessivamente la crescita economica. Ma questa, ovviamente, rimane solo un’ipotesi». Una certezza, invece, è il suo amore per la terra d’origine. «Il mio futuro a breve termine – confida – lo vedo ancora in Cina, ma quello a lungo termine in Friuli. Ciò che mi manca maggiormente è la dimensione umana e la qualità della vita. Tuttavia, ci sono cose della Cina a cui non rinuncerei, come l’attitudine positiva e l’euforia verso il futuro che qui si respira quotidianamente e che in Europa si è ormai persa. Per questo anche quando rientrerò in Friuli vorrò continuare a lavorare con la Cina, perché la Cina fa ormai parte del mio DNA».
Compresi i motivi di cuore… «La mia fidanzata è di Tianjin, città di 12 milioni di abitanti a 150 chilometri da Pechino. Ricordo la prima volta che l’ho portata a Cividale: di fronte ad una cittadina così piccola rispetto agli standard cinesi mi disse sorpresa: “Dove sono tutte le persone? Come mai non c’è nessuno in giro?”».
Osservando il moto perpetuo delle milioni di persone che, quotidianamente, attraversano il centro di Shanghai, silenziosamente osservate dall’imponente skyline dei grattacieli sorti lungo le sponde del fiume Huangpu, difficile darle torto. E tra quelle persone c’è anche Gianluca Ballarin, 35 anni, originario della provincia di Venezia, business director e unico straniero di una delle principali tipografie della metropoli. «Ho amato la cultura orientale sin da piccolo – spiega – quando iniziai a praticare le arti marziali. Poi mi iscrissi all’Università di Lingue e Letterature Orientali a Venezia, e scelsi Lingua Cinese. In seguito venni in Cina sia per studiare la lingua sia per praticare arti marziali tradizionali, e dopo la Laurea decisi di rimanerci a vivere e lavorare. Feci un primo soggiorno di studio nel 2004 e nel 2007 iniziai qui la mia esperienza lavorativa».
Un periodo sufficiente per individuare le principali differenze esistenti con l’Italia: «Anche per la morfologia del territorio, gli italiani – sottolinea – sono individualisti ed esploratori, farebbero di ogni città uno stato e per ogni individuo un’impresa, sono passionali e creativi, sono in grado da soli di inventare l’ininventabile, ma se li associ disfano tutto. I cinesi invece sono sempre vissuti in grandi spazi agricoli che richiedevano opere idrauliche, gestione centralizzata, migrazioni di massa, abituati quindi ad essere governati, vessati, hanno sviluppato un atteggiamento passivo, fatalista, ma allo stesso tempo adattabile e pragmatico. Noi siamo come un torrentello che scorre impetuoso da una ripida vetta, loro come un fiume maestoso che si snoda per migliaia di chilometri. Non li ferma nessuno».
E quando fiume e torrente si incontrano cosa succede? In altre parole, un italiano come viene accolto dai cinesi? «Dal cinese delle regioni remote – prova a rispondere – viene accolto con grande ospitalità e col sorriso; dal cinese di strada delle città, viene accolto con curiosità ed entusiasmo; dal cinese colto viene trattato con rispetto ed interesse. Se però ci si mettono di mezzo gli affari, viene accolto bene nella misura in cui fa molta attenzione alle regole del gioco, con un’attitudine da Far West, che diventa Far East. L’unica barriera vera per interagire è la lingua, i cui rudimenti sono caldamente consigliati per ogni tipo di attività in Cina. Si stanno sforzando anche loro per imparare l’inglese». Osservando l’evoluzione incessante di Shanghai, dove l’“adesso” è già passato, una domanda sorge spontanea: cosa ti manca dell’Italia e a cosa non rinunceresti della Cina? «Dell’Italia – replica sincero – mi manca... l’Italia. Standone fuori, nell’altro polo dell’esperienza umana, ho riscoperto il senso delle radici, delle mie radici, e dell’italianità. Difficile da descrivere: è sopratutto una dimensione interiore. Della Cina, allo stesso modo, vi sono cose che si colgono vivendoci solo per un prolungato periodo, e studiandone anche un po’ la cultura attraverso le persone reali, non ghettizzandosi nelle zone “occidentali”. Quando sono lontano dalla Cina più di tutto mi mancano le persone, sia quelle con cui ho legato, sia il colore, calore, rumore dello stare in mezzo alla gente. Alle volte sono troppi, e si sclera spesso... Dell’inquinamento potrei farne a meno».
Prima di ripartire per l’Italia, facciamo conoscenza con Yvonne, 24 anni, una delle colleghe di lavoro di Gianluca. Sembra il prototipo dei nuovi giovani cinesi: curiosa, determinata e con la passione per l’Occidente. È sabato pomeriggio. Durante la conversazione, provo a chiedere come usano trascorrere la domenica i giovani di Shanghai. Mi guarda come se fossi sbarcato dalla luna: «Io vado in centro a fare shopping».
Ripenso per un attimo all’effige di Mao e poi ai grattacieli lungo il fiume Huangpu. È il consumismo, bellezza.
Commenta per primo