Gli sguardi sul conflitto

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Osservatori bellici

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Nel periodo della Prima guerra mondiale l’esercito italiano nelle sua avanzata approntò una serie di punti o piazzole per seguire a distanza le varie operazioni militari. I luoghi destinati a questo compito erano di preminenza sopra elevati come alture, campanili, torrette di palazzi e ville o quelli più comuni sistemati su colline o montagnole. Alcuni impianti erano fissi mentre altri erano sistemati su postazioni occasionali. Quelli fissi disponevano di uno o più cannocchiali e di binocoli che potevano garantire una discreta visibilità riguardo i movimenti e la sistemazione difensiva delle prime linee e lo svolgersi degli attacchi sui campi di battaglia. Gli osservatori più famosi e conosciuti della III Armata erano sistemati a una decina di chilometri dalla linea del fuoco e si trovavano disseminati sui campanili delle chiese in territorio bisiaco e friulano, fuori dalle gittate dei medi e grossi calibri austriaci. Tutti gli osservatori erano collegati con le centrali operative di Armata e di Corpo d’Armata attraverso un’ampia rete telefonica.

Poi ogni comando di Corpo d’Armata ne aveva uno proprio. Il re Vittorio Emanuele III era convinto, come tutti i suoi consiglieri di Stato Maggiore, che l’Inghilterra, la Francia, la Russia e l’Italia alleate fra loro, costituissero un tale complesso di forze da non poter dubitare sull’esito vittorioso del conflitto. Tutti erano convinti che la guerra, viste le forze in campo, sarebbe durata al massimo due, tre mesi. Per questo motivo il re e tutto il suo seguito non volevano perdersi l’occasione di vivere un simile irripetibile evento storico. Arrivato da Roma con un treno speciale, il 25 maggio allestì il suo quartier generale nella villa Brunelli alla Corti, a nord di Treviso. Era composto da alcuni generali, un contrammiraglio, alcuni  colonnelli, diversi aiutanti di campo, scudieri, corazzieri, cucinieri, autisti e due automobili “Fiat Mod. 4, carrozzata Torpedo” a sei posti denominata “Saetta del Re”, un omnibus e un furgone a disposizione della Real casa e alcune donne di servizio per un totale di 23 persone.

Il 30 maggio 1915, il re si spostò con tutto il suo seguito nella villa Linussio a Torreano, frazione di Martignacco a 8 chilometri da Udine. La villa venne battezzata per l’occasione “Villa Italia”. Il primo giugno del 1915 il re iniziò il suo incessante peregrinare. Incontrava persone, visitava paesi, istituzioni, ospedali, soldati al fronte, popolazioni e tutti i Comandi di Armata e di Corpo d’Armata. Vittorio Emanuele III venne chiamato il “Re soldato”, perché aveva effettivamente seguito la guerra da vicino vivendo quasi la stessa vita del fante. Indossava la divisa grigioverde e mangiava in maniera frugale il suo rancio. Portava con sé poche cose, qualche effetto personale e l’inseparabile macchina fotografica. Pur tenendosi a debita  distanza di sicurezza dalla linea del fronte, più di una volta fu invitato a desistere nell’avanzare verso luoghi ritenuti pericolosi per la sua incolumità. Dal giugno 1915 all’ottobre 1917, Vittorio Emanuele III si fermò a Turriaco dodici volte e lo attraversò, passando oltre, altre quattordici.

Le visite terminarono bruscamente a Cividale il 24 ottobre 1917. Il 26 dello stesso mese, a causa della disfatta di Caporetto, il re abbandonò definitivamente le nostre zone per rientrare in treno speciale a Roma dove l’attendeva una crisi ministeriale.

Questo, in estrema sintesi, il quadro della situazione in generale. Ora veniamo all’oggetto del nostro discorso. Dal diario di Francesco degli Azzoni Avogadro, nominato dal re il 22 maggio 1915 Aiutante di Campo effettivo – carica che gli permise di seguire il sovrano in tutti i suoi spostamenti lungo la linea dei vari fronti – possiamo ricostruire, con una certa approssimazione, la posizione dei tanti “Osservatori” che il re e altre personalità politiche e militari del momento visitavano abitualmente. Oltre ai famosi osservatori posti sul colle di Medea, quello nel boschetto di S. Antonio, quello della Subida, quello sul Monte Quarin quello della Cascina Marcolina fra Romans e Villesse (preferito dal comandante del VII Corpo d’Armata, generale Tettoni) e quello di S. Lorenzo, per citare alcuni, c’erano molti altri posti sui vari campanili: per esempio quello della chiesa di Villesse e quello approntato sul campanile della chiesa di Turriaco in funzione antiaerea.

Non mancarono gli osservatori di marina e quelli sistemati nelle trincee e sulle diverse alture, come quello di Monte Calvario a quota 184 e quello di Bosco Cappuccio a quota 151. C’erano poi osservatori di grande prestigio come quello di villa Mangilli a Turriaco, sede prima del XIII Corpo d’Armata del generale Giuseppe Ciancio e poi del XXIII Corpo d’Armata del generale Armando Diaz.

Ormai sono rimaste poche le scritte che testimoniano la presenza nel nostro territorio di osservatori risalenti al periodo della Grande Guerra. Una per tutte quella murata nel 1931 sul campanile della chiesa di Campolongo al Torre, che recita:

DA QUESTO CAMPANILE

RIDOTTO A OSSERVATORIO MILITARE

S.M. VITTORIO EMANUELE III

NEL GIUGNO 1915 SEGUIVA

LE OPERAZIONI GUERRESCHE CHE

RIDIEDERO ALL’ITALIA LE CIME DEL CARSO

NEL SETTORE DI SAGRADO

1931 IX

Con l’intensificarsi dei bombardamenti sul paese, il 25 maggio 1917 il generale Ciancio spostò il comando di Corpo d’Armata nelle trincee di fronte al cimitero di Turriaco. Ciancio rimase là per poco, perché dieci giorni dopo, il 6 giugno, fu sostituito dal generale Armando Diaz che, vista la scomodità del luogo, il 7 luglio si trasferì con tutto il comando nella villa Prandi a Cassegliano. Mentre la villa Mangilli fu declassata a solo comando di reggimento.

Situato sulla torretta della villa omonima, l’osservatorio fu luogo d’incontro per tutte le grandi personalità militari e civili che transitarono in quel periodo. La villa si presenta tuttora nelle stesse condizioni in cui si trovava durante la Grande Guerra. Fa spicco la sua massiccia torre in mattoni rossi, alta una quindicina di metri, compresa la cuspide. Sufficiente a sovrastare tutte le case del paese. Costruita a forma quadrata, la torre domina la piazza e caratterizza l’intero complesso. Sulla sommità risaltano le ampie vetrate disposte nel verso dei quattro punti cardinali. Il lato est appare esattamente in linea parallela con i frontoni carsici che vanno dal monte San Michele al monte Sei Busi e alla Rocca di Monfalcone. Il lato ovest è rivolto verso il fiume Isonzo: posizione ideale per una osservazione militare a distanza. Dalla torretta, infatti, si potevano controllare tutti i movimenti della truppa, sia quella che transitava sui ponti dell’Isonzo, sia quella di ricambio che si avviava verso il fronte carsico. Intorno al paese erano dislocati una serie di attendamenti, la linea delle trincee, oltre alle colonne dei prigionieri che venivano concentrati nel “Curtivòn” di villa Priuli.

Fra tutti questi movimenti risaltava il triste spettacolo delle colonne dei mezzi portaferiti che, dopo ogni battaglia, a passo lento, venivano a riempire gli ospedali militari di Turriaco (undici realtà ospedaliere fra ospedali, ospedali da campo e Sezioni di sanità) e, purtroppo, anche il cimitero comunale dove furono sepolti i corpi di 2.500 militari italiani. Con quattro cannocchiali di diversa grandezza e potenza, disposti uno per lato, si poteva controllare un’area visiva che spaziava di 360 gradi. Non trascurabile e costantemente tenuta sotto controllo, la presenza dell’intero ciclo per il funzionamento del Drachenballon, per l’osservazione aerostatica a grandi altezze.

A livello tattico l’osservazione diretta delle operazioni belliche era di estrema importanza per coordinare il tiro dell’artiglieria, che poteva essere svolto sia da aerei da ricognizione sia da palloni aerostatici. Ma questi palloni avevano un punto debole: se veniva colpita la camera d’aria piena di gas idrogeno, altamente infiammabile, era praticamente impossibile che l’operatore, sistemato nelle cesta sotto il pallone, pur munito di un rudimentale paracadute, potesse salvarsi. Il pallone era tenuto frenato da terra ed era azionato da un verricello a motore con un cavo d’aggancio in acciaio, lungo fino a 500 metri. Il personale di terra necessario al funzionamento e alla preparazione delle varie sortite era composto da un centinaio di soldati, che provvedevano sia alla produzione sul luogo del gas idrogeno, sia allo spostamento manuale e al parcheggio dell’aerostato in appositi hangar mimetizzati.

Nella cesta di vimini sistemata sotto il pallone trovava posto un addetto alle comunicazioni munito di binocolo, il quale era collegato direttamente via telefonica con il Comando di villa Mangilli, dove uno staff di ufficiali dirigeva le operazioni. Dall’osservatorio gli alti ufficiali, attraverso potenti cannocchiali sistemati opportunamente sulla torretta della villa, potevano seguire in tempo reale lo svolgersi della battaglia, distanti e al sicuro dai luoghi di sangue e di morte. In un’intervista rilasciata nel 1982, la marchesina Bianca Mangilli ricorda che nel frenetico andirivieni di quegli anni le personalità di spicco che visitarono la villa furono, oltre al re Vittorio Emanuele III, il duca Filiberto d’Aosta, i generali Cadorna, Cappello, Giardino, Cigliana, Grandi, Ciancio, Badoglio e Diaz, gente famosa come Gabriele d’Annunzio e pure Benito Mussolini che con la bicicletta da bersagliere gironzolava per i paesi (in proposito la marchesina Bianca ricorda che sua madre, marchesa Orsola Mangilli, nata Guanin, prese a Mussolini il cappello da bersagliere e andò a vedersi allo specchio). In seguito giunsero pure giornalisti e fotografi famosi, accreditati dai vari ministeri.

Un aneddoto: una sera all’ora di cena, il generale Ciancio volle mescolare la polenta e la marchesa Orsola, osservandolo gli disse: «Generale, generale, se foste così bravo in battaglia come mescola la polenta sareste a Trieste già da un bel pezzo». Gelo totale. Finché il generale, uomo di spirito, scoppiò in una fragorosa risata che trascinò quella di tutti gli altri ufficiali presenti. Quasi inaspettatamente arrivò poi Caporetto. In 48 ore l’esercito austro-ungarico spazzò via l’esercito italiano, costringendolo a una disastrosa ritirata. Sul campo, nelle trincee e negli accampamenti abbandonati in fretta furono rinvenute grandissime quantità di armi e munizioni, oltre a 300 mila prigionieri.

Villa Mangilli fu velocemente sgomberata e lasciata alla mercé degli sciacalli che la svuotarono di ogni cosa, comprese le maniglie delle porte. Anche la famiglia Mangilli, per timore di ritorsioni, seguì l’esercito italiano in ritirata. Al suo ritorno, nel gennaio del 1919, buona parte del materiale trafugato le venne restituito e iniziò la ricostruzione sotto l’Italia.

Per anni nelle nostre zone continuarono ad apparire qua e là, nei campi e nelle case, abbondanti e pericolose tracce di materiali bellici abbandonati. Dell’osservatorio rimase, oltre al ricordo, solo un cannocchiale forse trascurato nel fuggifuggi generale. Del cannocchiale, per anni usato come gioco dai ragazzi, con il passare del tempo si persero le tracce. Lasciato là e  dimenticato, si ossidò fino a diventare un corpo unico quasi irriconoscibile: le varie parti mobili, come l’obiettivo, la canna e l’oculare si fusero assieme tanto da non potersi più aprire.

Grazie al marchese Massimo Mangilli-Climpson, pochi mesi fa il cannocchiale è stato recuperato e, dopo un lungo e attento restauro eseguito da mani esperte, è ritornato perfettamente funzionante al suo antico splendore. Come quando, attraverso il suo oculare, misero i propri occhi buona parte delle più grandi personalità militari e civili italiane della Prima guerra mondiale.

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