Non solo Cagliostro

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redazione

6 Novembre 2017
Reading Time: 6 minutes

Lino Guanciale

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Il primo ciak è fissato per la primavera, quando inizieranno a Trieste le riprese della seconda edizione di “La porta rossa”, la serie tv rivelazione del 2017. Lui è Lino Guanciale, il volto e il corpo del protagonista principale, Leonardo Cagliostro, poliziotto assassinato che indaga sul proprio omicidio.

«Una storia straordinaria – sottolinea lo stesso Guanciale – scritta da Carlo Lucarelli e Giampiero Rigosi, capace di stregare anche produttori internazionali con la sua trama assolutamente inedita».

Lino, partiamo proprio da qui. Quanto sarà difficile bissare il successo della prima serie?

«Siamo tutti consci che l’aspettativa è altissima. Il reparto scrittura in questi mesi ha lavorato da matti per tirare fuori soggetti degni di quelli della prima serie. A mio avviso ci sono riusciti. Ora spetta a noi attori riuscire a stare al passo».

“La porta rossa” è legata a doppio filo con la sua ambientazione: Trieste. Qual è il rapporto di Lino Guanciale con la città?

«Personalmente colgo ogni occasione possibile per tornarci. Questa città è stata e continua a essere davvero importante per me. L’ultimo anno è stato personalmente molto ricco dal punto di vista professionale e non solo. E tutto è nato nei mesi in cui giravamo la serie a Trieste. Ecco perché Trieste non è stata solo l’ambientazione insostituibile, ma forse anche il reale personaggio protagonista. Per me tornarci è come rendere omaggio a qualcuno cui devo molto».

C’è un posto in città a cui è particolarmente legato?

«Amo tornare sul Molo Audace, ma scelgo un luogo meno rinomato: la grande terrazza sopra i palazzi di Melara. Da lassù è possibile osservare un vista mozzafiato su Trieste e sul Golfo. Ovviamente non cito l’Ursus, visto che ho potuto godere di un accesso unico e privilegiato».

Facciamo un salto nel passato. Nei primi anni duemila, Lino Guanciale esordiva come attore teatrale: se allora le avessero predetto la fama di oggi ci avrebbe creduto?

«Credo proprio di no. Non avendo mai fatto questo mestiere considerando la celebrità come punto d’arrivo, vivo la fama in maniera molto scanzonata. Anche a quel tempo non mi ponevo il problema e quindi non ci pensavo troppo. A me bastava essere sul palcoscenico. Adesso, rispetto a qualche anno fa, ho semplicemente la fortuna di possedere un’arma in più, che è proprio il successo e che spero possa portare un maggior numero di persone in quella che considero casa mia, cioè il teatro».

Un attore con i piedi ben saldi per terra… Da cosa deriva questa capacità?

«Probabilmente riguarda l’educazione che ho ricevuto e l’evoluzione della personalità negli anni più verdi. Spesso chi vive la grande popolarità in modo equilibrato è chi, come me, ha alle spalle anni di lavoro svolti sotto traccia. Se si è fatta tanta gavetta, intesa come professionalità onorata ma meno visibile, della quale non si è sofferto ma di cui anzi si è saputo godere, l’arrivo della notorietà viene vissuto come strumento da utilizzare, non come occasione di riscossa  o di rivalsa».

A 38 anni lei può vantare già numerose esperienze in campo teatrale, cinematografico e di serie tv: quali di questi tre contesti è più stimolante?

«Lo sono tutti. Il teatro però ha quell’elemento da cui non puoi prescindere e che non puoi fare a meno di vivere se vieni da lì: il rapporto con il pubblico. Ogni altra esperienza lavorativa è comunque un prezioso arricchimento: lavorare con la macchina da presa ti costringe ad esempio a una precisione millimetrica, alla chiarezza e al raggiungimento di una efficacia interpretativa che non sempre ti poni quando lavori a teatro. Quando reciti a teatro, invece, devi principalmente porti il problema di esercitare una forte attrattiva seduttiva per il pubblico, che è lì per te quella sera, ma non hai un occhio che ti scruta ogni pelo del naso come avviene con la telecamera. In questi termini lavorare per il cinema e la tv aiuta moltissimo. Ma…»

Ma…

«Se sei “nato” a teatro non puoi fare a meno di tornare lì. Ti senti come un acrobata al circo: ogni volta rischi di cadere, di farti male, ma allo stesso tempo la sensazione di pericolo con il pubblico davanti è quella che può  r regalarti tante sorprese. Sul palcoscenico ogni sera rischi realmente di scoprire tante cose nuove di te. Chi viene da lì ha bisogno di tornarci per rimettere in circolo l’energia vitale».

Teatro da recitare, ma anche teatro da insegnare: dal 2005 opera come insegnante e divulgatore scientifico teatrale nelle università e nelle scuole superiori. Come mai questa scelta?

«Venne come una logica conseguenza dopo i primi anni di attore di giro. Uscito dall’Accademia ebbi la fortuna di lavorare per compagnie importanti: prima quella di Proietti, poi quella di Branciaroli e di Claudio Longhi, regista con il quale collaboro tuttora e che considero il mio compagno di strada teatrale. Quando eravamo in tournee balzava all’occhio che le sere degli spettacoli le sale erano – per essere diplomatici – meno piene di quanto ci si aspettasse. E che spesso a mancare era il pubblico giovanissimo, ma anche quello tra i 20 e i 40 anni. Ci sono un paio di generazioni che hanno proprio staccato il rapporto con il teatro, intendendolo al massimo come un luogo dove divertirsi una volta all’anno, ma non in cui andare abitualmente per crescere e fare esperienze culturali nuove».

Questa constatazione dove vi spinse?

«Con Claudio Longhi ci siamo chiesti: come facciamo a riportare le persone a teatro senza avere un nome di cartellone? Così, ci siamo inventati una serie di format educativi per fare formazione teatrale nelle scuole ma anche in altri contesti associativi o istituzionali. Li chiamammo Blitz: io e altri attori andavamo a fare delle lezioni spettacolo di storia del teatro recitando, con intervalli di spiegazioni teorico-critiche per fornire a chi ci stava ascoltando gli strumenti per comprendere meglio quanto veniva recitato».

I risultati come sono stati?

«Abbiamo avuto la dimostrazione che se il teatro fa lo sforzo di uscire dalle sue mura per andare incontro al pubblico potenziale, che è vastissimo, ci vuole poco per creare entusiasmo. Basterebbe fornire alle persone gli strumenti critici per comprendere i testi di Pirandello o Molière per garantire non solo il ritorno a teatro, ma anche la possibile fidelizzazione. Per fortuna sempre più realtà teatrali stanno investendo sulla formazione degli spettatori».

Essere insegnanti, e quindi educatori, significa essere degli esempi da seguire. Oggi Lino Guanciale è un esempio per molte persone: avverte la responsabilità di ciò?

«È un dolce peso, anche se cerco di non pensarci troppo, infarcendo il mio calendario di lavoro. Questo mi aiuta a stare con i piedi per terra e ad avere il polso della realtà. Svolgere il ruolo di “educattore” mi aiuta proprio a metabolizzare tutto ciò: a ricordarmi da dove vengo, cercando di dare le competenze alle persone affinché fra un paio di anni dopo uno spettacolo possano venire a bussare al mio camerino per dirmi che una cosa non gli è piaciuta, e spiegandomi il perché».

A proposito di insegnanti: il suo prossimo film con Claudio Bisio parla dei peggiori professori d’Italia nella peggior scuola d’Italia. Pensando all’attualità, quanto c’è di fiction e quanto di reale?

«Di reale c’è la situazione di una scuola con tanti problemi compensati dalla passione degli insegnanti, che della classe intellettuale italiana sono la parte più eroica. La scuola è una realtà in perenne emergenza, che a oggi si salva per il genio, l’abnegazione, l’applicazione delle persone che ci lavorano dentro. Sarebbe bello che chi insegna e chi impara in quello che dovrebbe essere il laboratorio del domani, non fosse messo in situazione emergenziale ma confortevole».

Recentemente ha dichiarato che le piacerebbe interpretare figure di perdenti. Come mai?

«Un po’ per calcolo professionale. Nell’ultimo periodo mi sono cimentato con successo in alcuni ruoli addirittura da sex symbol. Un attore tuttavia deve sempre dimostrare adattabilità e versatilità, per questo credo sarebbe bene cambiare, facendolo anche spigolosamente, rincorrendo occasioni di rinnovamento. Mastroianni in questo è stato un esempio in Italia. Se un attore sorprende e spiazza il pubblico, dimostra di saper fare cose diverse. La parola d’ordine è liquidità».

Rovesciamo la medaglia: per Lino Guanciale cosa significa essere vincente?

«Significa essere socialmente utile. Se quello che fai e quello che sei è gratificante per te ed è utile per la collettività e la società che vive attorno a te, questo è essere vincente. La vita non è un contesto in cui vince chi arriva prima; vince chi riesce a essere felice, magari offrendo anche ad altri questa opportunità».

Chiudiamo il cerchio: oggi qual è il sogno che Lino Guanciale desidererebbe realizzare?

«Spero che nello spazio di una generazione il nostro rapporto con il mondo dello spettacolo sia più vicino a quello di altri Paesi europei, dove andare al cinema o a teatro o vedere serie tv sono cose che vengono valutate paritariamente come alternative. Paesi in cui si hanno cinema pieni, teatri pieni e serie tv seguitissime. Mi piacerebbe dare un contributo perché da qui alla prossima generazione anche da noi ci possa essere una  situazione simile».

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