Nelle terre selvagge
Nella vasta pianura chaco-pampeana, sulla riva sinistra (25 km) del fiume Paraná, si trova una piccola e giovane città di strade e blocchi rigorosamente quadrati in stile spagnolo, con una grandissima piazza verde in centro.
Il suo nome, Avellaneda di Santa Fe, è un omaggio al Presidente argentino che, con una sua legge sull’Immigrazione e la Colonizzazione nel 1879, permise a più di cento famiglie di innalzare una delle tre città argentine fondate da friulani, assieme a Colonia Caroya, nella provincia di Cordoba, e Resistencia, capoluogo della provincia del Chaco.
Negli anni successivi arrivarono altri gruppi di famiglie friulane e trentine in queste terre di alte temperature, forte umidità e tante zanzare. Il territorio forse non era come l’avevano immaginato, né come le promesse fatte dal governo argentino l’avevano dipinto: non c’era nulla, solo grandissimi terreni di fitta foresta nativa e la minaccia degli indigeni, che volevano difendere il loro territorio, rimosso dal governo argentino nel disperato tentativo di “civilizzare” questi luoghi e creare una “Nazione Nuova”.
E la civiltà era europea. Sono parte delle tragedie della Storia, di coloro di cui non si parla mai, perché la Storia è sempre scritta dai vincitori. Tuttavia, il desiderio profondo e la necessità di questi uomini e donne erano nobili: avevano deciso di lasciare la propria terra con la certezza di non ritornare mai più. Il viaggio transcontinentale in nave a vapore durava varie settimane, ma addentrarsi all’interno dell’Argentina (800 km dal porto di Buenos Aires) ne esigeva altrettante.
Furono chiamati dai casi della vita ad abbandonare il proprio “fogolâr” per cercare altrove condizioni di vita migliori. Così si unirono a molte migliaia di persone di tutto il mondo, che tra la metà del XIX e l’inizio del XX secolo arrivarono nel nostro Paese per “Hacer la America” (“fare l’America”).
In quel deserto verde era tutto da fare. Il Governo argentino aveva messo a disposizione semi, 144 ettari di terra per ogni famiglia, alcuni strumenti precari per lavorare i campi e due o tre capi di bestiame. Abituati a lavorare piccoli appezzamenti di terra, respinsero l’offerta del governo e divisero in quattro il terreno, cosicché ogni capofamiglia ottenne 36 ettari. Dove piano piano costruirono le loro case e cominciarono a coltivare le terre vergini.
Lo spirito dei pionieri
Ci hanno insegnato che i pilastri dei nostri primi immigrati furono tre: la famiglia, il lavoro e la fede. Ed è vero, perché la loro vita fu molto dura, e certamente solo il lavoro instancabile e la speranza nel futuro li aiutarono a sopportare tutte le difficoltà.
La famiglia era il nucleo della costruzione sociale e la manodopera per i lavori di campo. Pertanto, le famiglie erano molto numerose e i genitori avevano tanti figli: dai 7 ai 10 e in alcune famiglie persino dai 14 ai 18. La mamma si occupava dei lavori domestici e collaborava con il marito, mentre il padre, secondo tradizione, svolgeva i lavori di campagna e le altre mansioni: c’erano muratori, falegnami, fabbri, meccanici e altri artigiani dalle competenze preziose. I figli, maschi e femmine, da bambini lavoravano a fi anco ai genitori anche nelle occupazioni molto dure, come la zappatura e la raccolta della produzione a mano.
Al loro arrivo, i nostri immigrati dovettero creare da zero l’intero ordine sociale della nuova comunità: la cultura, i valori e i costumi che si erano portati dietro da oltre oceano rinacquero nella nuova costruzione sociale, acquisendo alcune caratteristiche inedite in virtù del nuovo territorio. Si realizzò un’organizzazione forte, vera e propria base della nostra vita istituzionale d’oggi. Perché l’impegno individuale, quello che esigeva una fatica senza sosta, non era comunque abbastanza: il lavoro doveva essere indirizzato verso un sogno, verso un obiettivo comune. In questo modo, superando con grande sforzo tutte le avversità di un territorio marginale e lontano dai grandi centri di potere, i nostri avi costruirono assieme questa grande Comunità. Che anche oggi, dopo 135 anni, continua a essere lontana dagli uffici di Buenos Aires, dallo Stato centralista che prende le decisioni politiche ed economiche.
Eppure, Avellaneda risalta e si differenza positivamente da tanti altri comuni argentini proprio grazie alla forza della sua gente. Qui, il lavoro associativo e le cooperative sono le basi dell’organizzazione sociale e conformano il forte tessuto socio-istituzionale ed economico nella ricerca costante del progresso.
Che non è solo economico, ma anche “umano”. Si dice, infatti, che l’ambiente e il territorio plasmino il carattere della propria gente: è quindi probabile che siano le alte temperature, che in estate – capace di durare, da queste parti, oltre la metà dell’anno – arrivano fino ai 45 gradi, a rendere le persone del luogo calde e gentili, restie a dare del “Lei” e pronte, invece, a stringere subito amicizia.
La ricchezza del territorio
Come eredità dei primi immigrati, questo territorio basa la sua economia sul settore primario: prospera la coltura di girasole, soia, frumento, mais e sorgo, ma anche l’allevamento di pollame e di straordinari bovini, la cui carne di altissima qualità, che trionfa nel tipico asado argentino, è famosa in tutto il mondo. Ci sono anche importanti aziende di macchine agricole e di tecnologie per l’agricoltura, nonché piante per biodiesel e bioetanolo esportate anche in Europa. Tutto questo rende la città un centro produttivo e industriale tra i più influenti del Nord argentino. Ma il territorio si caratterizza anche per la produzione di cotone: lo chiamano “l’oro bianco”, perché negli anni ’70 fece crescere e sviluppare questa regione, finché l’avanzare della produzione di soia lo fece quasi sparire. Oggi, però, il raccolto sta emergendo di nuovo con forza, e ad Avellaneda si trasforma il cotone per l’industria farmacologica, per la produzione di olio e di tessuti di alta qualità, usati per l’abbigliamento distribuito in Argentina, in Sudamerica e nel mondo intero. L’oro bianco, tuttavia, non ha avuto importanza solo a livello economico, ma soprattutto a livello sociale, perché l’esigenza di manodopera ha generato una cospicua migrazione da altre regioni dell’Argentina, che ha avuto un notevole impatto nell’evoluzione della cultura locale.
Oggi, Avellaneda è una comunità fiorente e in crescita, ma riflette al suo interno le contraddizioni proprie dello Stato in cui è inserita: grandi risorse naturali ed enorme potenziale umano convivono con ampie fasce di popolazione in condizioni di povertà e di emarginazione.
Con il Friuli sempre nel cuore
Due volte la Provincia di Gorizia: sono queste le dimensioni, infinitamente più ampie delle terre d’origine dei nostri avi, del Comune di Avellaneda, il cui territorio è per il 65% sulle valli del Paraná. Il paesaggio è di una bellezza unica, segnato dal magnifico fiume Paraná e dai suoi affluenti; tutto intorno, lagune, estuari e zone umide, bellissime palme e una foresta costiera che ospita una variegata fauna selvatica, dominata dagli uccelli colorati e dichiarata sito mondiale protetto dalla Convenzione di Ramsar: il suo nome è Jaaukanigás, parola di lingua indigena degli Abipones (“gente dell’acqua”, non a caso).
Ormai sono passati 135 anni dall’arrivo di quelle famiglie che hanno dato origine alla città. Siamo alla quarta o quinta generazione di emigrati: i nostri avi giunsero qui con poche e povere cose materiali nelle loro valigie di cartone, ma pieni di ricchi progetti, individuali e collettivi, carichi di determinazione, di convinzione, di speranze e di un’incrollabile fede nel loro lavoro. Ma anche di nostalgia per la patria lasciata alle spalle.
Passati così tanti decenni, si potrebbe pensare che il ricordo e l’amore per la patria del Friuli si sia perso nel tempo. Invece, è successo qualcosa di straordinario: basta camminare per le strade e guardare negli occhi gli abitanti e immediatamente si sente ancora, nello spirito, il sangue friulano che scorre nelle vene.
La gente beve mate e le domeniche si trova in famiglia a mangiare l’asado o la pasta, ma se si va in campagna si può ancora sentire i vecchi parlare in friulano, trovarsi al bar per bere vino, mangiare salame fatto in casa e giocare a mora e cinquin. Il contatto con il Friuli è stato riallacciato nella terza o quarta generazione: i primi emigrati e i loro fi gli non hanno mai avuto contatto con la madre patria. In questo recupero dei rapporti hanno avuto un ruolo fondamentale l’Ente Friuli nel Mondo e il “Fogolâr Furlan” Centro Friulano di Avellaneda. Queste preziosissime istituzioni ci hanno permesso di recuperare le relazioni, mantenere vive le tradizione friulane anche nelle giovani generazioni: “parcè lis lidrîs no dome nus nudrissin, ma ancje nus sostegnin” (“perché le radici non solo ci nutrono, ma anche ci sostengono”).
È stato un grande dono dei friulani rimasti nella terra d’origine ai corregionali e ai discendenti sparsi per il mondo. Un dono sostenuto da un grande sforzo economico, ma soprattutto umano, che siamo convinti abbia dato i suoi frutti: perché oggi noi friulani siamo una grandissima famiglia sparsa in tutto il pianeta, con valori e simboli che ci rappresentano e che, in un mondo globalizzato, costituiscono la nostra identità.
Negli ultimi anni, grazie alla Regione Friuli Venezia Giulia, alla Provincia di Gorizia con cui Avellaneda è gemellata dal 2004, all’Ente Friuli nel Mondo, al Convitto Nazionale “Paolo Diacono” di Cividale (dove, dal 2002 ad oggi, sono stati ospitati 104 ragazzi della nostra città grazie al progetto “Studiare in Friuli”) e a tantissime persone, istituzioni e comuni friulani, le relazioni e gli scambi sono profondi e constanti: ma a raccontarli sarà un’altra storia.
Marianela Bianchi è Funzionaria del Comune e rappresentante del Fogolâr Furlan di Avellaneda.
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