Dopo le preghiere

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Margherita Reguitti

15 Luglio 2019
Reading Time: 6 minutes

Simone Mestroni

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La pacatezza dell’uomo maturo, la competenza espressiva del ricercatore colorate dall’entusiasmo di un giovane amante dei viaggi e curioso di scoprire i fatti e le loro cause, senza temerne la complessità. Il friulano Simone Mestroni, classe 1981, è autore di un importante lavoro sul separatismo in Kashmir, al confine fra India e Pakistan, raccontato attraverso il documentario After prayers (Dopo le preghiere) e il saggio Linee di controllo, edito da Meltemi nel 2018, lavoro pubblicato per il dottorato in Antropologia all’Università di Messina. In questi mesi Mestroni è rientrato a Udine. «Sto trascorrendo l’estate – racconta – in Friuli Venezia Giulia e in giro per l’Europa, impegnato nella presentazione del mio documentario e nella partecipazione a festival di settore. Un’esperienza, quella delle rassegne di film documentari, che mi sta dando soddisfazioni e premi (fra i riconoscimenti più recenti il primo premio al Monselice Etnofilmfest e quello al Festival del documentario di Vienna, ndr)».

Questo è un momento particolarmente positivo per la produzione di documentari?

«Sì, è un periodo di fermento anche se è sempre molto difficile reperire finanziamenti in quanto c’è molta competizione. Me ne sto rendendo conto in questi giorni in cui sto cercando di reperire fondi per realizzare un documentario che racconti la storia di Sergio Cechet, capitano in ruolo d’Onore dell’Aeronautica che nel 1982, a causa dello scoppio di una bomba durante la sua attività militare, ha perso la vista. Un evento drammatico, superato impegnandosi nello sport, nell’arte e in molte altre attività».

Torniamo ad After prayers: quali sono le motivazioni principali di apprezzamento del film da parte delle giurie nazionali e internazionali?

«Direi che viene evidenziato e apprezzato tutto il lavoro etnografico che sta dietro la costruzione della storia. Viene dunque compreso come il lavoro non sia stato fatto mordi e fuggi, ma attraverso una lunga e attenta permanenza sul campo, per arrivare a una conoscenza del background geopolitico e storico del territorio del Kashmir, dove da oltre 70 anni è in atto una  guerra. In occasione di una presentazione a Gemona una spettatrice ha fatto un’osservazione informale ma molto interessante descrivendolo tattile: sensoriale e al contempo cerebrale».

Una definizione che condivide?

«Direi che spiega bene le caratteristiche del mio lavoro, ma è anche una definizione propria della ricerca etnografica. Questo mi ha molto gratificato in quanto evidentemente si riesce ad apprezzare la parte esperienziale assieme alla componente analitica e intellettuale».

Come si sviluppa la storia?

«Attraverso le narrazioni di gente del luogo che ho incontrato e conosciuto. Da parte mia non c’è una sovrapposizione esplicita con una voce fuori campo: in questo senso mi esprimo di più nella fase del montaggio».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In che lingua è stato girato?

«Parte in kashmiri e parte in inglese, a seconda della possibilità dei protagonisti di esprimersi».

Come mai ha scelto lo studio di etnografia e antropologia quali strumenti per guardare al mondo e farne un linguaggio espressivo?

«Per una serie di coincidenze inconsapevoli manifestatesi alla scelta dell’università, lasciandomi guidare dalla fascinazione, in base alla preponderanza di materie umanistiche nel corso di studi. Con il termine antropologia si intende la materia in senso più teorico, mentre l’etnografia in genere riguarda la ricerca sul campo. Ma buona parte delle mie competenze le ho apprese facendo osservazione partecipante all’interno della società kashmiri, con una particolare attenzione alla questione dei confini, prendendo in considerazione e studiando le dimensioni identitarie, religiose e sociali del conflitto fra India e Pakistan».

Un conflitto che ha origini lontane.

«Una guerra che si trascina dal 1947, con un aggravarsi della violenza dopo l’insurrezione armata del 1989. Ho analizzato e dato voce a come tutto questo si riverberi all’interno della vita emozionale, del mondo vissuto dalle popolazioni che sperimentano la violenza quotidiana, pervasiva nella situazione sociale condivisa. Generazioni che non conoscono la pace ma solo un perpetuarsi della violenza. Una situazione strutturale, in cui la politica di occupazione indiana viene vissuta sul territorio come forza di occupazione».

Su tutto questo ha scritto anche un volume, dal titolo Linee di controllo: genealogie pratiche e immagini nel separatismo kashmiri, che ha presentato in Friuli Venezia Giulia e in Italia e che è testo adottato nelle università…

«Nel volume l’analisi etnografica riprende il conflitto da diversi punti di vista. Il focus è la kanijang (le sassaiole), scontri quasi rituali che avvengono il venerdì dopo le preghiere fra i giovani kashmiri e i militari indiani. Un modo con il quale gli adolescenti rievocano la spartizione tra India e Pakistan, quindi l’origine della disputa del Kashmir. Una memoria performata che, quando la situazione politica è più grave, diventa dura e violenta, tanto da essere anche una macchina di martirio. Si crea allora una scissione fra chi considera martiri le vittime dell’esercito indiano e chi li considera agenti del Pakistan o terroristi. Solo saltuariamente la presenza dei media fa rimbalzare in occidente le notizie della questione separatista che caratterizza queste terre».

Perché ha scelto il Kashmir per il suo lavoro?

«Una coincidenza anche questa. Andai in India per la prima volta a 25 anni, nel 2006. Era il periodo dei monsoni e per evitare la piogge mi diressi verso il Tibet indiano e poi verso il Kashmir, prendendomi la responsabilità di andare in luoghi considerati pericolosi. Lo trovai molto lirico dal punto di vista paesaggistico, ma soprattutto incontrai persone desiderose di raccontare le loro vicende legate al conflitto. Mi chiedevano di raccontare quello che avevo ascoltato al di fuori la vallata. Restai per 15 giorni, ma decisi di tornare per la laurea specialistica, conseguita nel 2009. Mi recai allora nella città vecchia di Srinagar, la capitale estiva dello stato, dove trovai lavoro come apprendista in una bottega d’intaglio. Questo mi ha permesso di imparare la lingua e di osservare il tutto da un punto di vista diretto e privilegiato, raccogliendo il materiale per il dottorato, ma anche per il libro e per il documentario».

Il libro è corredato da fotografie da lei scattate. Quella di chiusura del testo è molto particolare.

«È la foto di Oyoub, il protagonista del documentario e voce importante del libro. Si tratta di uno dei primi guerriglieri che negli anni ’80 ha dato principio  all’insurrezione contro l’India. Una storia e una personalità contorte. Negli anni ’90 ha perso la vista mentre preparava un ordigno. È stato lui in pratica la mia chiave d’accesso alla complessità del Kashmir, della quale conosce tutti i retroscena. Era votato al martirio ma solo il caso lo ha fatto sopravvivere, al contrario dei suoi compagni di lotta, tutti caduti in combattimento molto giovani. Lo considero un amico e quando sono in Italia di fatto sento la sua mancanza. Un rapporto che è decisamente proseguito oltre la ricerca».

La sua famiglia è venuta in Kashmir?

«Sia mio padre Armando che mi madre Antonietta hanno voluto vedere i luoghi dove ho vissuto e lavorato. Sono entrambi viaggiatori ma devo dire che mia madre è “la viaggiatrice doc”. Da lei ho preso il gusto e la curiosità di andare a vedere e conoscere luoghi fuori dal turismo di massa».

Quanto tempo ha vissuto sul confine?

«Sono stati vari soggiorni ma direi complessivamente 4 anni, spezzettati, durante i quali ho viaggiato anche nel resto dell’India».

Quando tornerà?

«Presumibilmente in novembre, ma al momento sono molto impegnato nei festival internazionali e nel lavorare a questa storia di Cechet che ha punti di interesse con Oyoub. Due vite cambiate dalla cecità ma proseguite poi in modo intenso, facendo di uno svantaggio una forza, nel tentativo di superare i limiti attraverso gli ideali e la voglia di vivere appieno. Una vocazione condivisa da questi due uomini così lontani e così simili».

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