In Olanda la ricerca parla friulano

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Margherita Reguitti

6 Settembre 2019
Reading Time: 6 minutes

Il cividalese Matteo Monai

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Matteo Monai, lei è stato premiato per una ricerca di sviluppo di catalizzatori nanostrutturati a base di leghe metalliche di elementi non nobili, quindi a basso costo, per applicazioni in campo energetico, in particolare nella conversione delle biomasse a combustibili e prodotti chimici. Ci può spiegare le applicazioni pratiche?

«In generale, la ricerca affronta due pilastri del problema della sostenibilità: come fare minor uso di combustibili fossili, così da diminuire le emissioni di CO2 e frenare il riscaldamento climatico; e come sostituire materiali rari, costosi e a rischio, quali il platino, con materiali più abbondanti come il nickel e il rame. L’applicazione più immediata della mia ricerca è la produzione di un additivo per benzine a minor impatto ambientale. Si tratta di un composto, il dimetilfurano, derivato da scarti agricoli a base di cellulosa, che nella mia ricerca ho dimostrato essere prodotto in maniera selettiva da catalizzatori più economici. Miscelare la benzina con additivi bio-derivati è una pratica già in uso nei paesi europei, si prenda ad esempio l’etanolo: vi siete mai chiesti cosa vuol dire E10 al distributore? Introdurre il dimetilfurano è possibile senza ulteriori modifiche in quanto ha proprietà simili».

Cosa significa questo premio per lei?

«È un grande onore aver ricevuto questo premio. Vedere riconosciuti il mio impegno e la mia passione mi sprona ancora di più a raggiungere nuovi traguardi. Per la mia carriera significa avere una marcia in più nella corsa ai bandi di ricerca, per ricevere fondi e poter avere un mio gruppo di ricerca indipendente».

Premiato in Italia ma fa ricerca all’estero… Nel nostro Paese sarebbe riuscito a raggiungere i traguardi perseguiti finora?

«È vero, sono finito all’estero come molti dei miei colleghi. Ma i traguardi che mi hanno permesso di  vincere l’ambito Premio Eni sono stati in gran parte raggiunti in Italia, nel laboratorio del professor Paolo Fornasiero, all’Università di Trieste. A Fornasiero e al suo gruppo va tutta la mia gratitudine per avermi formato come scienziato e anche per aver dimostrato che in Italia siamo capaci di fare grandi cose, sebbene con un decimo, per usare un eufemismo, dei fondi che si trovano altrove».

Com’è fare ricerca e vivere in Olanda?

«In Olanda mi trovo molto bene. Vivo e lavoro a Utrecht, una bellissima città di origini romane non lontana da Amsterdam. Mi sposto in bici, anche sotto gli acquazzoni, come vuole l’usanza locale. Il gruppo di ricerca in cui lavoro (del prof. Bert Weckhuysen) è enorme (un’ottantina fra PhD e postdoc) ma il clima è quello di una grande famiglia e i laboratori sono nuovissimi e forniti di attrezzatura all’avanguardia. Quello che stupisce di più è però il pervasivo senso del dovere e la filosofia del lavoro olandese: ognuno fa il suo mestiere con entusiasmo, ma per le 6 si va tutti a casa e nel weekend ci si gode un po’ di riposo. In Italia purtroppo c’è una dicotomia profonda fra chi sgobba e chi si approfitta – la quale supera ogni barriera di rango o estrazione sociale – e alla fine qualcuno deve rimanere in dipartimento fino a tarda sera o il fine settimana per finire il suo lavoro e quello de gli altri. Ma bando all’amarezza: la mancanza di casa c’è e si sente a tavola e nel cuore».

Lei ha vissuto esperienze anche in università degli Stati Uniti: quali sono le differenze con il mondo accademico europeo?

«Il bello di essere un ricercatore è che ti sposti molto e conosci culture diverse. Non amo generalizzare, e la mia esperienza è che le cose negli Stati Uniti e in Europa cambiano molto non solo da Stato a Stato, ma anche di laboratorio in laboratorio. Per sei mesi durante il mio dottorato ho lavorato a Filadelfia (UPenn, Pennsylvania), sulla costa est, in due diversi laboratori situati nello stesso palazzo: già questi due mondi erano totalmente diversi fra loro. C’è da dire però che oltreoceano sono molto operosi, e pronti – almeno i dottorandi – a lavorare anche nel weekend senza battere ciglio, anche se temo sia più per disprezzo della pigrizia che per autentica vocazione».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cosa significa per lei essere un ricercatore?

«Quattro cose fondamentali: uno, porsi le domande giuste; due, elaborare strategie semplici ma efficaci per rispondere; tre, seguire il metodo scientifico fino a trovare una risposta, anche se parziale; quattro,  comunicare al mondo il risultato. E sul piano personale, essere umile, accettare i fallimenti, saper osservare e ascoltare opinioni diverse senza pregiudizi, vivere alla giornata, gioire dei successi quando alla fine arrivano».

Come vede il futuro della ricerca in Italia?

«Il futuro è difficile da prevedere, ma il presente non è florido, salvo alcune oasi di felicità. I fondi  scarseggiano e il ricambio generazionale è limitato. Ma esistono programmi di rientro dei cervelli e le eccellenze italiane sono invidiate nel mondo. La speranza c’è, anche per me, di tornare in Italia un domani. Ma vedo un problema più ampio, culturale. Vedo un Paese in retromarcia, del “quando c’era lui”, dei tagli all’istruzione. Un Paese dove coloro che dissentono vengono scherniti come “professoroni”. E mi viene un po’ di paura per l’Italia, figurarsi per la ricerca in Italia».

L’Università di Trieste e i centri di alta specializzazione come la SISSA fanno della città e del Friuli Venezia Giulia un riferimento internazionale nell’ambito della ricerca?

«Sì, Trieste in particolare è un fiorente centro di scienza. Il cosiddetto “Sistema Trieste” pullula di ricercatori: già dieci anni fa erano circa il 4% della popolazione triestina. E non ci sono solo l’università e la SISSA, ma anche il Sincrotrone italiano Elettra, l’ICTP (Centro di fisica internazionale) e l’ICGEB (Centro di genetica e biotecnologie internazionale), per citarne alcuni. Non a caso Trieste è stata scelta dall’ESOF  (Euroscience Open Forum) come Capitale europea della Scienza 2020, per ospitare una manifestazione internazionale con cui si vuole anche rilanciare l’area del Porto Vecchio. Staremo a vedere se la Regione e la città riusciranno a cogliere la palla al balzo e fare di questa manifestazione l’inizio di un vero e proprio programma di ulteriore sviluppo del polo scientifico triestino».

Matteo Monai come si immagina fra 10 anni?

«La tentazione di rispondere “mi immagino capo di un mio gruppo di ricerca” è forte. Ma la verità è che non ho mai fatto piani a lungo termine. Citando il famoso monologo del film The Big Kahuna: “Le persone più interessanti che conosco a ventidue anni non sapevano che fare della loro vita. I quarantenni più  interessanti che conosco ancora non lo sanno”. Continuerò a lavorare con passione e coglierò le nuove opportunità con un sorriso».

 

Matteo Monai, nato a Cividale nel 1989, riceverà il 10 ottobre a Roma al Quirinale, presente il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il premio Eni Award – Giovane ricercatore dell’anno, riconoscimento divenuto punto di riferimento a livello internazionale per la ricerca nei campi dell’energia e dell’ambiente. Laureato in chimica all’Università di Trieste ha conseguito nel 2017 il dottorato di ricerca sempre nell’ateneo giuliano sotto la direzione del professor Paolo Fornasiero. In contemporanea è stato visiting student all’Università della Pennsylvania. La sua tesi di dottorato è stata proclamata la miglior tesi in catalisi per lo sviluppo sostenibile nel XXVIII e XXIX ciclo di dottorato nel 2017 da parte della Società Chimica Italiana, Premio Adolfo Parmaliana. è co-autore di 24 pubblicazioni uscite in riviste scientifiche internazionali di alto profilo. Attualmente è post-doctoral fellow presso l’Università di Utrecht nel gruppo del professor Bert M. Weckhuysen.

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