Tracce nel tempo

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Margherita Reguitti

6 Febbraio 2020
Reading Time: 6 minutes

Ulderica Da Pozzo

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Ulderica Da Pozzo, che cos’è la fotografia per lei?

«È lavoro di ricerca sul territorio da una parte e impegno professionale nella realizzazione di lavori commissionati dall’altra. Un esempio: la mostra “Ragazzi del ’99” allestita nella chiesa di San Francesco a Udine è frutto di una mia ricerca, il calendario realizzato per il Piano di Sviluppo rurale della Regione è professione. È un poco come tenere i piedi, o meglio la mente, in due luoghi».

La sua ricerca ha come soggetti prediletti la memoria, la natura, i volti, i luoghi…

«Tutto gira attorno alle parole tempo, memoria, morte. Esserci e non esserci. Essere al mondo, esserci stati, non esserci più. Alla fine tutto diventa memoria: questo sono le mie fotografie. Una traccia nel tempo, dunque, anche testimonianza. La fotografia è tante cose, è un linguaggio creativo in continua trasformazione. È diventata un consumo continuo, un gioco perpetuo. Una volta era il fotografo che scattava, un’azione elitaria, poi, con la diffusione delle macchine fotografiche, lo scatto è arrivato alla portata di tutti. Oggi, attraverso il digitale e i cellulari è una scorpacciata di immagini, linguaggio quotidiano di comunicazione per giovani e anziani. Ma la “Fotografia” è altro. La stessa differenza che passa fra scorrere Facebook e aprire un album di foto stampate o visitare una mostra».

La pervasività di immagini nel quotidiano rende più evidente uno scatto pensato, costruito, realizzato con stile, equilibrio, costruzione di luce, spazi, piani e colori?

«Una bella fotografia può essere fatta anche in pochi istanti, può essere il rapido cogliere un’apparizione oppure una costruzione per creare un viaggio o un progetto. Nei miei lavori ho spesso avuto presente il concetto di tempo. Ad esempio nel mio primo libro ho fotografato i vecchi della Carnia, persone della mia infanzia, uomini e donne che pochi anni dopo sono spariti. Non ho scelto le storie interessanti ma semplicemente ho seguito le date di nascita di 120 persone ritratte all’interno delle loro case. Ho realizzato anche delle video-interviste strutturate in modo che i soggetti non sentissero né la mia presenza né quella della telecamera. Era il 1996 e a questo lavoro di ritratti e raccolta di patrimonio orale, fermati e resi concreti per tutti e non solo per me, ho dedicato due anni. Come ci sono voluti altri due anni per realizzare il lavoro e il libro “Il filo dei bambini e i riti di montagna”, un reportage sulle tradizioni e i bambini di montagna. In questo senso la fotografia ha anche una funzione sociale, di testimonianza di ciò che era e non è più».

Nella sua ormai lunga carriera vi sono temi ricorrenti come gli elementi naturali, i volti, i mestieri, le tradizioni e gli spazi vuoti…

«Sono temi che negli anni ho sviluppato in libri e mostre. “Fum e l’aga” del 1998 era centrato sui vecchi della Carnia. Sono seguite le pubblicazioni “Malghe e malgari” e “Fra mare e terra” nelle quali il focus è il lavoro dell’uomo. Ma è vero, sono affascinata dai luoghi vuoti e abbandonati raccontati nella mostra e volume “Stanze”, presentati a Roma nel 2013, e in “Oltre le porte” realizzato nell’ex ospedale psichiatrico di Sant’Osvaldo a Udine nel 2018. Ma ho anche raccontato Udine vista camminando, l’acqua e il fuoco come elementi primogeni, componenti di riti e tradizioni e, nel caso dell’acqua, un elemento con tante “voci”, da cui il titolo del libro “Le voci dell’acqua”, elemento generativo di vita, di energia e anche di forza per l’industria».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ascoltandola penso che nel suo lavoro entrino discipline diverse che vanno dall’antropologia all’etnografia, e vi siano sguardi differenti: viaggiatrice, narratrice e ascoltatrice di vite altrui.

«Non sta a me definirmi: i miei lavori raccontano le trasformazioni e i cambiamenti del paesaggio naturale e umano. In questo senso sono lavori antropologici e etnografici. Raccolgo storie ascoltandole. Faccio quello che mi piace, come so fare. Con alcune scelte che mi hanno fatto decidere con il cuore di restare legata a questa terra, pur avendo le possibilità di tentare strade più lontane».

Cosa intende?

«A 42 anni ebbi il regalo della nascita di mio figlio. Una gravidanza difficile prima e un grande impegno poi, che richiese una pausa di circa 4 anni. Questa è stata una scelta di cuore che ha significato restare fuori da contratti, contatti e tanto altro di importante per la professione. Essere stata scelta da Franco Fontana per la mostra allestita nel 2014 a Roma nel Complesso Dioscuri del Quirinale, a distanza di molti anni da un corso che avevo seguito con il maestro, mi ha dato la misura delle mie possibilità che avrebbero potuto portarmi in altri luoghi. Perché, come mi disse Fontana, avevo le carte per farlo. Ma ho preferito restare e lavorare nella mia terra, pendolare fra Udine e Ravascletto (a Salars di Ravascletto nel 2013 ha aperto la Cjasa da Duga, piccolo luogo dedicato alla fotografia, n.d.r.)».

Cosa cerca nel ritratto di vecchi e bambini?

«Cerco la direttrice dello sguardo, nel mezzo di questo spazio c’è il tempo. Cerco la frontalità nella quale io mi specchio e ridivento bambina».

Chi sono i ragazzi e le ragazze ritratti in questa mostra udinese?

«Sono giovani carnici nati nel 1999, un omaggio a mio nonno ragazzo del ’99 e a mio figlio Niccolò ragazzo del ’99; un rispecchiare uno in un altro, due secoli, due tempi vicini e lontani. Ho cercato anche un po’ a caso, a volte, come in certi comuni dove i numeri lasciavano poco spazio alla scelta con 2 nati all’anno: li ho cercati, intervistati, fotografati. Ognuno ha una storia da raccontare. Tracciano una mappa su come i numeri raccontino il cambiamento di un territorio. Paesi che erano importanti per abitanti e valli che si sono spopolate».

La Carnia le deve molto, lei è la sua narratrice; che spirito cerca in questa terra dalla bellezza e dalla forza pudiche e ritrose?

«Provo per la Carnia gratitudine per la mia infanzia, nostalgia dei rapporti umani e della coesione sociale che stanno cambiando. Racconto quello che vedo e sento. Di giovani che amano la loro terra: alcuni decidono di restare, altri di andare via e alcuni sanno di dover andare. Vivo vicino a loro e lontana da loro, semplicemente li racconto. Fotografo lo spaesamento di certi luoghi e la tenacia di resistere. Racconto di come i ragazzi di Ravascletto hanno creato l’associazione “Cidulins e cidulines” per essere vicini, non solo per l’esigenza di tener vive le tradizioni ma anche per la voglia di resistere e fare gruppo. Immagini e vite che cerco e racconto anche in questa mostra. E poi la Carnia è memoria e futuro. La Carnia e le Valli del Natisone sono luoghi che sento in modo intenso anche se contradditorio: appartenenza e straniamento».

Come giudica il panorama della fotografia in Friuli Venezia Giulia?

«Ricco e variegato, con interessanti presenze di donne e di giovani, assai diverso rispetto a quando ho iniziato a metà degli anni ’70. Se da una parte c’è stato un impoverimento di studi fotografici – a Tolmezzo negli anni ’40 ce n’erano 6, oggi 1 – dall’altra vi sono autori interessanti che si occupano di fotografia in tanti modi, dal reportage alla ricerca. Alcuni occupano anche la scena internazionale, inoltre ci sono molti giovani autori che faranno strada».

Che rapporto intercorre fra la fotografia e il video?

«Il video ha per me sempre un ruolo di supporto al progetto fotografico. Adopero spesso il video per i racconti orali, altre volte per raccontare. Sono azioni che hanno tempi diversi. Nella prima i tempi sono più veloci mentre per filmare un racconto ho bisogno di tempi lunghi».

Il nome Ulderica significa “potente nella clemenza”: si riconosce?

«Non lo so: certo posso essere affettuosa e terribile, tutto e il contrario di tutto».

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