Dopo le grandi campagne mediatiche che hanno accompagnato i confronti e le discussioni pre-riforma ed i primi provvedimenti post riforma, tutto tace. Il silenzio potrebbe essere interpretato come segnale di inattività, ma in realtà le Università in questa fase sono impegnate a recepire ed a realizzare uno dei tasselli chiave della riforma, ovvero a definire le nuove regole della cosiddetta governance. Si tratta della definizione dei nuovi assetti statutari ed in particolare della composizione e delle modalità di funzionamento degli organi amministrativi collegiali: i Consigli di Smministrazione (CdA). La riforma, che prevede l’obbligo di adottare i nuovi statuti entro il prossimo mese di luglio, con l’inserimento di un numero minimo di rappresentanti esterni al mondo accademico dello stesso Ateneo.
Il bacino di scelta di questi rappresentanti è molto ampio, essendo gli unici requisiti previsti quelli relativi a competenze professionali e manageriali in campo scientifico e culturale. In teoria potremmo ritrovare nei Consigli di Amministrazione profili provenienti dal mondo imprenditoriale, dalle carriere manageriali pubbliche e private, da altre Università e Centri di Ricerca. In questo caso l’obiettivo perseguito dalla riforma consiste nell’aprire e meglio collegare le strategie e le politiche della ricerca e della formazione alle istanze provenienti dal tessuto sociale ed economico di riferimento, superando la frequente autoreferenzialità del corpo accademico. Ovviamente anche nel caso di queste quote di “esterni” si rivedono contrapposizioni analoghe, mutatis mutandis, a quelle viste nel caso delle quote di genere, o quote rosa. E si tratta di contrapposizioni feroci. Nel caso delle quote rosa si è assistito a prese di posizioni indegne per un paese civile. Le critiche sono state alimentate con le più disparate argomentazioni: da quelle iperliberiste che sostenevano che la composizione dei CdA riflette e deve riflettere l’evoluzione complessiva della società lasciando fare la selezione alla mano invisibile del libero mercato del lavoro, a quelle che sostenevano l’evidenza di ricerche comprovanti una presenza femminile già in linea con quella dei Paesi piu avanzati, a quelle che evidenziavano correlazioni negative tra presenza femminile nei CdA e performance borsistiche delle società stesse. Si è arrivati a citare il caso Parmalat, omettendo il fatto che in quel caso la presenza femminile aveva dei legami di parentela con l’azionista. Non si discuteva nel merito dell’obiettivo, cercando di delegittimare pedestremente i razionali alla base della scelta. Il perché va ricercato nella difesa di interessi corporativi spesso inconfessabili. Basti dire che la quota prevalente dei componenti dei CdA delle società quotate oltre ad essere maschile è over 65.
Nel nostro Paese tutte le iniziative che cercano di rimettere in moto l’ascensore sociale e di rivitalizzare processi di mobilità e rinnovamento delle classi dirigenti sono osteggiate dalle parti più disparate. Ma il conflitto poi passa dagli obiettivi alle modalità di realizzazione degli stessi. Sempre nel caso delle quote di genere si sono allungati di 2-3 anni i tempi di realizzazione, con sanzioni in caso di non adeguamento mitigate rispetto a quanto previsto originariamente. Alcuni illustri professori sono arrivati a dire che comunque le donne selezionate dovevano avere requisiti professionali di gran lunga migliori di quelli dei colleghi maschi. Anche sulle quote di esterni nei CdA degli atenei non mancano disaccordi e critiche sia sugli obiettivi che sulle modalità realizzative.
Sugli obiettivi c’è chi sostiene che si tratta in realtà di una privatizzazione strisciante dell’Università pubblica e che l’inserimento di esterni piegherà la libertà di ricerca e di fare cultura agli interessi venali localistici e dei corpi associativi cooptati. In realtà ricerche empiriche dimostrano l’esatto contrario: la rappresentanza esterna nei CdA migliora le performances degli atenei. Ma non è questo il punto. Possibile che si vada sempre alla ricerca di riferimenti internazionali per avvallare scelte che invece dovrebbero essere innanzitutto il frutto di una visione del futuro nostro e delle generazioni più giovani? Purtroppo la cultura corporativista e della frammentazione clientelare dei privilegi particolari inibisce confronti dialoganti, costringendoci a percorsi defatiganti, spesso fuori tempo utile, ed a rincorrere conflittualità mediatiche che lasciano tutto inalterato.
Il conflitto sugli obiettivi, come nel caso delle quote di genere, si sposta poi sulle modalità realizzative. È evidente che il solo inserimento di esterni non può fare la differenza. Esso va inquadrato in un contesto di regole di governo che ne abiliti il ruolo (gli statuti, le deleghe ed i regolamenti interni). Infatti in molte Università la presenza di esterni negli organi collegiali era già una realtà preesistente alla riforma, che però non ha portato risultati significativi. Sarà proprio sul ruolo da assegnare a queste rappresentanze che gli atenei dovranno misurarsi per rendere efficace la costruzione di un nuovo ponte tra Università e ambiente di riferimento. Il tema è quello di come realizzare una rappresentanza autorevole e responsabile. Anche qui c’è chi sostiene che la rappresentanza esterna non debba comportare coinvolgimenti di interessi economici privati e chi invece auspica che risorse finanziarie private possano concorrere al finanziamento dello sviluppo delle politiche di ricerca e formazione dell’Università. Tra le schiere dei primi ci sono coloro che sostengono che il tessuto socio economico italiano (poche grandi imprese, poca propensione alla ricerca, ecc.) non abbia le risorse sufficienti per investire in tali programmi.
Il corollario è che solo la finanza pubblica può provvedere. In Italia ci sono altresì esperienze eccellenti di collaborazione, anche istituzionale, tra pubblico e privato nello sviluppo di tecnologie avanzate, ad esempio a supporto delle filiere industriali export led. Ma, di nuovo, il punto è un altro. Il ruolo tipico di un CdA consiste nei poteri di indirizzo, coordinamento e controllo cui corrisponde l’assunzione di responsabilità sulle performances dell’organizzazione. Il potere di orientare le scelte e di concorrere alla formazione dei processi decisionali relativi alle politiche di un ateneo deve coniugarsi alla responsabilità sui risultati e ad un sistema meritocratico che ne incentivi il conseguimento. Per quanto concerne i membri esterni del CdA ciò dovrebbe concretizzarsi anche in un ruolo di canalizzazione ed allocazione di fondi ai programmi di investimento che hanno concorso a determinare, in rappresentanza dei portatori di interesse di cui sono espressione. Per questi motivi le scelte dei membri esterni dovrebbero essere molto oculate, selezionando componenti espressione di reali interessi di sviluppo dell’istituzione universitaria. Altrimenti soluzioni pasticciate, frutto di conflittualità irrisolte, esplicite o latenti su obiettivi e modalità realizzative, genereranno una governance scarsamente responsabilizzata e non all’altezza delle sfide.
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