Lo scrittore Stefano Sciacca torna in libreria e lo fa con un noir dal titolo “L’ombra del passato” (Ed. Mimesis) con cui ci fa compiere un viaggio nei meandri della mente umana portandoci letteralmente a spasso in una Torino misteriosa, che potremmo definire addirittura ipnotica.
Stefano, hai pubblicato testi di critica cinematografica e letteraria e il romanzo “Il diavolo ha scelto Torino” (2014). Con Mimesis è stata poi la volta di “Sir William Shakespeare, buffone e profeta” (2018). Prima di parlare della tua ultima fatica, ti va di raccontarci perché Shakespeare è additato come “buffone e profeta”?
“Fu proprio Shakespeare a paragonare se stesso a un buffone da spettacolo («a motley to the view») e, durante la stagione dei sonetti – una parentesi da artista di corte per chi invece visse una vita intera da impresario teatrale – ad ammettere la vergogna legata alla professione di attore e drammaturgo, guardata con disprezzo e sospetto dalle istituzioni dell’epoca. La contraddizione tra il successo, riscosso presso contemporanei e posteri, e il sentimento di inadeguatezza e disagio, provato a causa della propria attività creativa e della reputazione a essa connessa, rendono la sua vita e le sue opere (dotate di carattere spiccatamente autobiografico) profetiche rispetto a quelle di molti altri intellettuali, ugualmente costretti a subire ciò che io definisco “la tragedia moderna dell’artista”. La necessità cioè di mediare tra vocazione creativa ed esigenze commerciali e l’insofferenza nei confronti di una società insensibile alla tradizione, indifferente al futuro, completamente devota alla moda presente, all’attualità”.
“L’ombra del passato” e i personaggi che ne animano le pagine, invece, come hanno preso vita dentro di te?
“Anche grazie alla riflessione svolta a proposito della società moderna – ambigua, contraddittoria, schizofrenica – della quale già mi ero occupato nella stesura di Prima e dopo il noir e, appunto, di Sir William Shakespeare, buffone e profeta. L’investigatore privato Michele Artusio, protagonista del romanzo, è il tipico antieroe noir, un individuo che non si riconosce nella società in cui è, suo malgrado, costretto a vivere. Un individuo che non tollera di dover obbedire ciecamente alle sue leggi e alle sue mode, di doversi adeguare alla sua moralità o, meglio, alla sua immoralità. È un individuo, insomma, condannato a dubitare e, quindi, a rispondere alla propria coscienza. Questa circostanza lo fa soffrire ma, allo stesso tempo, è la sola cosa che gli permetta di sentirsi vivo e che lo distingua e contrapponga a un’umanità sul punto di morire. Anzi, un’umanità già morta. Evidentemente, in maniera più o meno consapevole, devo avergli attribuito la funzione tipicamente assolta dal tragico buffone shakespeariano: quella di colui che revoca in dubbio tutto ciò che passa per ovvio e che osa mettere in discussione tutto ciò che è considerato intoccabile.
Gli altri personaggi, invece, costituiscono la corte della modernità, le varie declinazioni di un ordine logico, economico e giuridico, osservate attraverso gli occhi di un ribelle, incapace di adattarsi a quell’ordine e per nulla disposto a concedergli il proprio rispetto. Dunque, Artusio è nato dentro di me. Gli altri personaggi, poi, sono nati da lui e risultano essere ciò che sembrano a lui, perché è lui a raccontarli in prima persona”.
Troviamo qualcosa di autobiografico in Michele Artusio?
“Artusio personifica la parte migliore di me o, più precisamente, quella alla quale io sono più legato, nella quale più mi riconosco. Attraverso lui, la mia insofferenza nei confronti della borghese società moderna e delle sue regole, perlopiù inique ma dogmatiche, ha preso vita. In lui, trova espressione la mia resistenza a esistere sotto forma di compromesso, adeguandomi a principi e logiche che, parafrasando Seneca, non vengono seguiti dalla maggioranza in quanto sono giusti, ma vengono considerati giusti in quanto sono seguiti dalla maggioranza. Artusio è il volto del mio amore incondizionato per le questioni di principio, della mia irresistibile simpatia per le cause perse”.
Potrebbe esserci un sequel o lo escludi in assoluto?
“Provando a sottoporre il manoscritto a un noto editore siciliano, che ha una felice tradizione di personaggi seriali, sottolineai il potenziale seriale di Artusio. D’altra parte, qualunque protagonista che non muoia può seguitare a vivere da un romanzo all’altro. Quel matrimonio editoriale non si è celebrato ed è venuta meno qualunque prospettiva di serialità. E, del resto, avevo bluffato: io amo cambiare di continuo, genere, stile, volto. Tuttavia, avendo definito Artusio un tipo shakespeariano, non posso fare a meno di soffermarmi a riflettere: ciò che distingue i personaggi shakespeariani sono la complessità e la contraddittorietà. Entravano in scena già “pronti per il dramma” ed esso – se mi è concesso il gioco di parole – scaturiva naturalmente dalla loro natura. Eppure anche costoro dovettero ben essere acerbi, un tempo, prima di divenire così maturi. Dovettero essere semplici, prima di complicarsi. Crescita, sviluppo, corruzione, tutto questo è oggetto di un genere letterario che amo molto: il romanzo di formazione. Bene, se mai dovessi interrogare di nuovo Artusio, vorrei domandargli di raccontarmi in quale maniera è diventato ciò che è. Quindi, un prequel, piuttosto che un sequel, alla scoperta della sua esperienza nell’affrontare il trauma che tutti quanti dobbiamo affrontare, quando da adolescenti diveniamo adulti e intanto sentiamo che qualcosa, dentro di noi, un tempo c’era e ora non c’è più. E, così, sperimentiamo in prima persona quell’assaggio di morte che consegue alla perdita delle nostre illusioni giovanili”.
Noti una evoluzione personale come scrittore, intesa anche in termini stilistici, e come uomo tra le varie opere letterarie che portano il tuo nome?
“Di certo, ho perduto molte illusioni! Proprio come Lucien Chardon, poeta di provincia e protagonista del capolavoro di Balzac. Ho scoperto che il mondo dell’editoria è un business, lucido e spietato, nel quale, per citare ancora il romanziere francese, si compiono «speculazioni in letteratura», tutto è calcolo, e nessuno ha tempo «per fare da marciapiede alle glorie future, ma per guadagnare denaro e darne agli uomini celebri».
Insieme alle illusioni, naturalmente ho perso tanta ingenuità: sono diventato anch’io più maturo e cinico, come autore e come uomo. Il mio stile è evoluto e continua a evolvere, in quanto è la traduzione (per così dire) letterale della mia formazione. Resto però fedele alla mia poetica: avere idee mie proprie, spesso in controtendenza rispetto a quanto imporrebbero il mercato e la moda. Idee sovversive, ribelli, inattuali. Insomma, se vogliamo, una poetica ispirata alla filosofia del buffone shakespeariano”.
Quale compito affidi ai romanzi scritti?
“Prima chiedevo loro soltanto di aiutarmi a sfogare un’urgenza interiore. Di essere strumento per un momentaneo sollievo. Non ha funzionato granché, altrimenti avrei smesso di scrivere. Ma intanto ci ho preso sempre più gusto. Forse, una volta che si è cominciato, non è più possibile smettere di scrivere. Almeno finché si vive. Vivere come scrivere, scrivere per vivere. Finché si vive, si pensa, si dubita, si congettura. Questo è scrivere. L’attività letteraria e, quindi, quella editoriale sono soltanto l’atto di condivisione attraverso cui si tenta, per un bisogno narcisistico, di comunicare agli altri le domande dalle quali si è partiti e le risposte alle quali si è giunti. E si spera che queste vengano apprezzate. Di certo non riesco a considerare l’attività creativa un lavoro più di quanto non lo siano l’attività respiratoria o quella onirica. Se volessi diventare ricco, andrei a dirigere una banca o, in alternativa, a svaligiarla. Non che non badi alla ricchezza, solo che nella mia prospettiva personale d’autore, la concepisco in termini di relazioni umane: ciò che conta è riuscire a entrare – sia pure solo per la breve durata di un libro – nella vita di qualcun altro. Attraverso i miei romanzi cerco un confronto, un dialogo. Esattamente quello che chiedo alle persone che amo e stimo. Parlare, parlare per davvero, parlare di sé, delle proprie speranze, delle proprie paure, di sentimenti ed emozioni, invece che del clima, del cibo o del campionato di calcio, è un’attività sempre più rara e, allo stesso tempo, più preziosa. Per me almeno, risulta addirittura indispensabile. E devo ringraziare con tutto il cuore la mia famiglia, mia moglie e mia figlia, i miei pochi ma veri amici, per tutto il tempo che dedicano ad ascoltarmi e ancora di più per quello in cui si raccontano. Soprattutto, da quando sono diventato papà, mi illudo che i miei libri possano un giorno, quando non ci sarò più, continuare a parlare al posto mio, alla mia piccola Bianca (che, come ogni figlia, per me resterà piccola anche quando sarà diventata grande e pienamente indipendente). Spesso lei gioca a far finta di aver scritto un romanzo che io, poi, devo leggerle. Insomma, già creiamo a quattro mani e non credo che potrei chiedere davvero niente di più a questa mia attività”.
Infine, ritieni che uno scrittore si abitui a esprimere più facilmente emozioni e condividere sentimenti ricorrendo alla forma scritta che a quella verbale?
“È un rischio innegabile. La parola scritta è l’esito non solo di una volizione spontanea ma di una gestazione lunga e sofferta. Ci sono parole sulle quali mi soffermo a lungo, che soppeso e ripenso, magari per una notte intera. E, così, si finisce per preferire quanto è stato sottoposto alla revisione rispetto a quanto invece rischia di scappare a ogni controllo. Tuttavia è vero che le parole (e certe parole in particolare) assumono un significato del tutto unico quando sono pronunciate guardando negli occhi la persona per la quale le abbiamo scelte. La parola «amore», per esempio, scritta su un foglio di carta non potrà mai possedere la vita che soltanto la voce e lo sguardo le sanno infondere, producendo brividi ed emozioni che spesso non esiste parola per definire”.
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