Da molti anni gli psicologi cercano di descrivere il comportamento aggressivo dell’uomo e le sue cause, per poter rendere conto di un aspetto che ha grande impatto nella vita relazionale e sociale.
Già gli autori comportamentisti negli anni ‘30-‘40 sostenevano la tesi che l’aggressività presenta almeno due aspetti: uno biologico detto filogenetico, legato alla difesa e alla lotta per la vita in generale, e uno chiamato ontogenetico, derivato dalla situazione concreta, attuale e contingente di ogni individuo, il suo “qui e ora”.
Da un lato affermavano quindi l’inevitabilità di certi comportamenti aggressivi in quanto necessari alla sopravvivenza di tutti gli animali, uomo compreso, per esempio nella ricerca del cibo, nella difesa della prole, nella competizione sessuale per il mantenimento della specie. Dall’altro però, fin dall’inizio, evidenziavano altri comportamenti aggressivi non ereditari, bensì acquisiti nell’ambito di un’organizzazione di tipo sociale e verbale, cioè culturalmente legati a specifici valori e culture.
Cosa implica questa distinzione? Per gli psicologi Skinner e Watson ogni comportamento aggressivo è motivato o da una “necessità biologica” e quindi è considerato funzionale cioè utile, o deriva da una “necessità soggettiva individuale”… richiedendo in questo secon do caso una più approfondita analisi del senso e delle cause che hanno indotto il comportamento ostile.
Una importante teoria ci deriva da Dollard, che enuncia il binomio frustrazione-aggressività, sostenendo che esista una relazione biunivoca tra i due fattori. In sostanza, dove esiste una frustrazione si genera dell’aggressività, e se osserviamo un comportamento ostile, di attacco, possiamo presumere che sia stato indotto da una qualche frustrazione di un bisogno, anche se non immediatamente visibile.
Vorrei soffermarmi su queste considerazioni che restano essenzialmente valide, nonostante la teoria di Dollard sia datata e per molti versi superata da nuovi apporti teorici e sperimentali.
Quale utilità può avere nella nostra vita quotidiana la consapevolezza che la frustrazione è un importante motore per la genesi dell’aggressività? A mio parere ognuno di noi può operare una riflessione sui tipi di situazione personale che più facilmente inducono a risposte e comportamenti ostili, carichi di un’energia negativa che deve riversarsi all’esterno per consentirci di ritrovare un equilibrio interiore.
Proviamo a seguire delle indicazioni che ci forniscono Berkowitz, Fromm e altri autori nell’individuare possibili punti d’origine di un comportamento aggressivo: quando qualcuno mi ostacola o mi danneggia mentre sto impegnando le mie energie per raggiungere un obiettivo per me importante (interruzione di un’attività rivolta a uno scopo per noi rilevante, mentre la stiamo svolgendo, frustrazione vera);
• quando mi sento costretto a rinunciare a un desiderio perché mi sembra troppo difficile o faticoso da conseguire, oppure quando vedo qualcuno che riesce ad ottenere risultati positivi apparentemente in modo facile (negazione di un desiderio, semplice privazione di un’ambizione ideale non messa in atto);
• quando qualcuno fa o dice una certa cosa, sento scattare improvvisamente un’emozione incontenibile di rabbia e ira (verificarsi di una situazione tipica legata a esperienze precedenti non necessariamente frustrante, che risulta per noi fortemente irritante e ci provoca uno stato di disagio significativo).
Come stiamo rispondendo? Cosa ci fa scattare la risposta aggressiva? Abbiamo sperimentato una, due o tutte e tre le situazioni?
Questa analisi degli stimoli capaci di suscitare reazioni ostili è sufficiente a mettere in evidenza un fatto che negli anni ’40 veniva ignorato: per ogni persona esiste un modo soggettivo di esperire la frustrazione che deriva sostanzialmente dalla combinazione di due fattori, da un lato le esperienze pregresse e le abitudini apprese nel proprio ambiente, dall’altro il carattere individuale, gli aspetti cognitivi e l’assetto della personalità.
In sostanza per affrontare la comprensione dei comportamenti aggressivi, ostili e violenti, non basta andare alla ricerca di leggi psicologiche meccaniche e deterministiche (se sei così, allora fai così), ma prima di tutto diventa necessario calarsi nella realtà del contesto ambientale che può fornire stimoli, occasioni e giustificazioni culturali ai comportamenti ostili.
Il secondo passo, più impegnativo, richiede l’esplorazione dell’autostima, del legame che la persona ha con la realtà e come interpreta i rapporti con i propri simili.
Solo a questo punto si potrà restituire alla persona la consapevolezza sull’esercizio dell’aggressività, consentendole di trovare forme adattative non violente di rivendicazione per frustrazioni reali subite.
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