Da Strassoldo alla Colombia, in aiuto dei poveri

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Livio Nonis

31 Marzo 2021
Reading Time: 4 minutes

L’esperienza di padre Claudio Bortolossi

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In questa quaresima l'Unità Pastorale cervignanese ha ricevuto le visite di tre missionari: un religioso, padre Claudio Bortolossi, e di due signore laiche, Claudia Pontel e Ivana Cossar, che hanno condiviso le proprie esperienze nelle zone in cui sono chiamati a portare la parola di Cristo.

Per padre Claudio, originario proprio di Strassoldo di Cervignano, non ci sarà più il ritorno perché, dopo 23 anni di duro lavoro in Colombia, è stato destinato a una parrocchia non ancora definita, ma probabilmente nella nostra regione.

Cerchiamo di conoscerlo: quando frequentava la quinta elementare ricevette una lettera da parte di un missionario che gli chiedeva se volesse entrare nell'ordine. Accettò e iniziò la prima media nei saveriani.

Una decisione già nel suo destino. Appena ordinato sacerdote, infatti, sua mamma gli disse che quando si era resa conto di essere incinta, il primo pensiero fu: “Signore questo è per voi”. Un predestinato.

Dopo l'iter formativo era pronto per partire missionario in Indonesia ma “l’uomo propone e Dio dispone”: gravi motivi familiari lo indussero a rimanere in Italia dove si dedicò anima e corpo all'insegnamento e ad accudire i propri familiari gravemente ammalati.

Finalmente, con una messa ad Aquileia, cuore della Chiesa udinese e goriziana, salutò tutti gli amici e parenti prima di approdare in Colombia a 51 anni suonati.

E qui ha trascorso i ventitré anni più interessanti della sua vita, inviato a Buenaventura, potendo finalmente mettere in pratica l’esperienza pastorale che teoricamente aveva sempre insegnato.

Padre Claudio, com'è stato il suo approdo in Colombia?

“Innanzitutto dovetti imparare la lingua, per sei mesi a Bogotà affinai lo spagnolo, poi venni destinato a Buenaventura, il porto principale della Colombia con i suoi 300.000 abitanti. Fui incaricato alla parrocchia di Cristo Redentore, la prima impressione fu quella di vivere in un altro mondo, dal punto di vista della povertà”.

In quei posti c'è una disoccupazione che arriva al 70%, con tassi di criminalità e violenza più alti di tutta la Colombia: come si può portare la parola di Cristo?

“La violenza è una mentalità comune, che non risparmia nessuno. Mi sono proposto di trasformare la parrocchia tradizionale in parrocchia missionaria, cioè evangelizzatrice, dove i laici sono coinvolti in pieno con senso di comunione e corresponsabilità. Il passaggio è avvenuto attraverso un metodo preciso, detto “Sine” (Sistema integrale di nuova evangelizzazione), che applica a livello parrocchiale l'ecclesiologia e la spiritualità del concilio Vaticano II. Un esempio su tutti vivere la fede in piccole comunità (massimo 15 persone) in modo di comunicare più facilmente e, specialmente le donne, far riprendere una loro dignità, non essere trattate come oggetti a piacimento dell'uomo, essere considerate persone a tutti gli effetti. Anche se non sempre queste nuove condizioni erano accettate dai loro mariti”.

La vostra opera consisteva anche nell'educazione e nell'insegnamento ai ragazzi. Come riuscivate a conciliare questo importante lavoro?

“Le adozioni a distanza sono una fonte importante di sostegno: con una adozione riuscivamo a pagare le insegnanti e dare un’istruzione adeguata a 5 o 6 ragazzi, alla fine rimaneva ancora qualche piccolo introito che noi usavamo per riparare la scuola. Nel nostro istituto comunque accettavamo solo i ragazzi poveri e bisognosi, senza di noi non avrebbero avuto nessun tipo di istruzione”.

Come avete affrontato la pandemia?

“Ci siamo adeguati alle normative internazionali, mascherine e distanziamento, in chiesa ci siamo comportati come ci si comporta qui in Italia. Un problema che tutti affrontano con estrema serietà, anche se come dappertutto c'è sempre qualcuno che non segue le regole”.

Il Papa, nei saluti del dopo Angelus, ha ringraziato la Colombia per l’implementazione di uno Statuto che favorisce l’accoglienza, la protezione e l'integrazione delle persone costrette a lasciare la nazione confinante del Venezuela. Voi che siete in prima linea come avete affrontato il problema?

“La nostra è stata un'accoglienza per questi sfollati, che arrivavano da un paese ricco ma che non sa distribuire la sua ricchezza. Li abbiamo accolti come si può accogliere un fratello che è in difficoltà: abbiamo cercato di condivide con loro quello che avevamo con la speranza che al più presto questa fuga dal loro paese natale si possa concludere”.

Dopo 23 anni non ritornerà più in Colombia. Come si sente?

“L'obbedienza innanzi tutto: i miei superiori ma hanno destinato a un altro compito e devo accettare. Se mi dicessero di ritornare lo farei più che volentieri, anche a nuoto, ma il mio compito lì è concluso. Nelle ultime messe che ho celebrato ho salutato tutti i fedeli, e posso dire che ho visto molti occhi gonfi di lacrime, ma penso di avere assolto il mio compito nel modo più consono, dando tutto me stesso per quelle popolazioni. Ora avrò una nuova missione, sono pronto e la affronterò sempre portando la parola di Gesù Cristo: il mio compito continua ancora”.

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